Le vostre zone erronee – Una lettura illuminante

Mentre mi interrogavo per capire quali fossero le mie reali passioni, quelle che davvero desiderassi coltivare nel prossimo futuro, mi sono resa conto che oltre alla musica, alla lettura e alla scrittura, non avrei potuto fare a meno di continuare ad indagare i misteri  della psiche umana, un po’ per capire me stessa, un po’ per capire (e magari smettere di temere) le persone che mi circondano.

E cercando online qualche testo di psicologia da tenere sul comodino per colmare i tempi morti tra un romanzo rosa e un giallo, mi sono imbattuta in un libro che, con estrema semplicità, mi ha aperto nuove frontiere dell’introspezione, oltre a fornirmi delle interessanti chiavi di lettura sui rapporti interpersonali.

81QwdX0WAsLIl libro “LE VOSTRE ZONE ERRONEE – Guida all’indipendenza dello spirito” dello psicologo e scrittore Wayne W.Dyer, tratta essenzialmente le fragilità umane riscontrabili nella stragrande maggioranza delle persone, e non solo ne spiega le origini e i risvolti nella vita di ogni giorno, ma regala anche qualche prezioso consiglio per aiutarci a migliorare lasciandoci queste “zone erronee” alle spalle.

Era tanto che aspettavo una lettura di questo tipo, e il fatto di essermici imbattuta per caso in un momento di forte fragilità, mi ha davvero impressionata. Non si tratta di uno di quei libri mirati a venderti l’illusione della felicità e a propinarti frasi motivazionali che, senza una buona base di comprensione, lasciano un po’ il tempo che trovano. Gli 8,50 € meglio spesi delle ultime settimane! Ne consiglio la lettura a chiunque si trovasse in un momento di smarrimento, ma anche a chi volesse capire meglio i meccanismi (spesso inconsci) che portano l’essere umano a reagire e comportarsi in un determinato modo e sfruttare queste nuove conoscenze per fare un percorso di crescita personale.

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Dyer comincia il suo saggio (tra l’altro pensato e scritto per persone assolutamente digiune di psicologia e termini medici specifici) con l’ammissione che “cambiare costa fatica“. È questo uno dei principali motivi che ci spinge all’inerzia, a perseverare nei nostri comportamenti “erronei”. E badate bene: con “erronei”non intende comportamenti “sbagliati” e disapprovati dalla società, tutt’altro! Nella maggior parte dei casi qui si parla di comportamenti che la società non solo approva, ma addirittura incoraggia, ma che sono estremamente dannosi per noi stessi sotto tutti i punti di vista: per la nostra parte razionale, per quella emozionale e, nei casi più spinti, per il nostro stato di salute. Non si tratta di “aggiustare qualcosa di rotto”, ma bensì di comprendere e addirittura crescere se lo si vuole.

Potrebbe sembrare assurdo, ma se ci pensiamo bene nella quotidianità ci sentiamo spesso molto più sicuri ad attenerci ad un modo di reagire che conosciamo, benché autodistruttivo, piuttosto che a cambiare le nostre abitudini. Quali saranno mai queste abitudini autodistruttive che non riusciamo a cambiare? Non siamo mica degli automi senza cervello che continuano a perseverare in qualcosa che ci fa del male? In effetti no, non siamo degli automi, ma ciò non toglie che, senza esserne davvero consapevoli, spesso ci comportiamo come se lo fossimo. Chi, ad esempio, può dirsi privo di rimpianti, di ansie, di preoccupazioni, di desideri che forse non si realizzeranno mai? Se non tutti, quanto meno la maggior parte di noi. Questo prova che qualcosa nei nostri meccanismi profondi non funziona come sarebbe naturale che funzionasse.

Dyer spiega che qualsiasi comportamento autodistruttivo che mettiamo in atto, è un modo per evitare il presente, l’adesso. Eppure non ha senso, visto che il presente è l’unico momento in cui possiamo fare esperienza. A cosa serve rimuginare continuamente sulle esperienze passate o su quelle future? La domanda è ovviamente retorica.

La vita è nostra, e dovremmo farla così come noi la vogliamo. Ma spesso non sappiamo neanche cosa vorremmo davvero, e allora potrebbe essere davvero arrivato il momento di scendere nel profondo per comprenderne i motivi e abbracciare nuovi processi mentali che ci consentano di dirigere noi stessi esattamente lì dove vogliamo. Ovviamente non è semplicissimo dal momento che veramente tantissime forze cospirano contro la responsabilità individuale, ma ciò non significa che con le conoscenze giuste e un po’ di impegno sia impossibile.

Tendenzialmente le nostre giornate sono fatte di passaggi tra un determinato stato d’animo e un altro: un momento ti senti sereno, quello dopo qualcosa ti turba e ti arrabbi, poi ti senti ansioso per qualcosa che dovrà accadere, e non poterlo comandare ti fa sentire frustrato. Eppure è possibile controllare tutti questi stati d’animo. Il sillogismo che usa Dyer è molto semplice:

Io posso controllare i miei pensieri

I miei stati d’animo discendono dai miei pensieri

Posso controllare i miei stati d’animo

Ogni emozione non è altro che la reazione fisica ad un pensiero, ed è proprio sui pensieri che dovremmo agire per cambiare noi stessi e la nostra vita. E quando possiamo farlo? Soltanto adesso, nel momento in cui ogni cosa accade. Non possiamo cambiare i nostri pensieri di ieri, eppure quella di non tenere in considerazione il presente è una vera e propria malattia della nostra cultura: ciascuno di noi, infatti, viene continuamente condizionato a sacrificarla per il futuro. La felicità, sempre rimandata all’indomani, ci sfugge. Vi è mai capitato di dire a voi stessi:”Quando mi sposerò/quando sarò più magra/quando mi sarò laureato/quando avrò un figlio/quando guadagnerò di più la mia vita cambierà”. Poi quell’evento si verifica, e restiamo delusi perché capiamo di averlo idealizzato, e che niente è realmente cambiato. Ciò significa che non dovremmo lasciare che le circostanze pilotino la nostra vita: se vogliamo qualcosa, dobbiamo agire per ottenerla, senza aspettare che circostanze esterne lo facciano per noi….anche perché potete star certi che non avverrà.

Spesso restiamo immobili per il timore di sbagliare, ma se ci lasciamo paralizzare dalla paura non cambieremo mai, e di conseguenza anche la nostra vita resterà tale e quale.

Fra i comportamenti “immobilizzanti” che non ci permettono di crescere e cambiare, c’è sicuramente l’approccio “erroneo” all’amore verso noi stessi e gli altri, accompagnato dal comune errore di confondere il proprio valore con il proprio comportamento: siamo soliti pensare che quel tale sia “cattivo”, anziché pensare semplicemente “si è comportato male”; e così ragioniamo anche per noi stessi. Quando non siamo capaci di fare qualcosa, sentiamo di valere poco “in generale”, senza riflettere sul fatto che se non siamo riusciamo in qualcosa, potrebbe essere semplicemente perché non ci siamo “allenati” abbastanza: le nostre capacità non sono scritte nei nostri geni, ma sono piuttosto il frutto di scelte che abbiamo compiuto in passato. Se ad esempio in età adulta siete delle schiappe nella corsa o nel gioco del golf, questo non fa di voi delle persone che valgono meno rispetto a quelle che invece in questi campi vanno forte: semplicemente, in passato, avrete ritenuto di dedicare il vostro tempo e i vostri sforzi ad altre attività. Che quelle decisioni si siano rivelate “sbagliate” per voi (e solo voi e nessun altro può dirlo), l’unica alternativa che avete è lavorare per cambiare il presente, visto che tanto per il passato non potete più fare niente. D’altronde niente e nessuno potrà mai darvi la garanzia che una decisione dia i risultati che speravate, tanto vale provare e, nel caso in cui il risultato non ci soddisfi, cambiare e provare una nuova strada.

E se a limitarci fossero degli aspetti di noi stessi che consideriamo “sbagliati”? Be’, a questo punto è necessario capire se si tratta di aspetti che possono essere modificati (ad es. qualcosa che consideriamo un difetto caratteriale), o meno (ad es. la lunghezza delle nostre gambe); nel secondo caso, dobbiamo lavorare per imparare ad accettare noi stessi, tenendo sempre ben presente che l’amore per sé stessi non esige l’amore e l’opinione altrui.

Ma che senso ha scegliere per noi stessi questi comportamenti autodistruttivi? Principalmente perché abbassare il nostro valore e metterci al di sotto degli altri, ci evita molti rischi. Così facendo, possiamo ricevere compassione e attenzione, con lo svantaggio di dare contemporaneamente agli altri un potere sterminato sulla nostra vita. Aver bisogno di essere approvati, è un po’ come dire “Vale più il tuo pensiero su di me, che l’opinione che ho di me stesso”. In questo modo saremo tutto ciò che gli altri vogliono che noi siamo, a discapito della nostra vera personalità. D’altronde secondo la nostra cultura è sempre meglio consultare gli altri che fidarsi di se stessi. Non a caso l’approvazione viene usata come potente strumento di manipolazione: l’indipendenza e l’auto-approvazione allontanano dal controllo altrui, ma vengono definiti comportamenti egocentrici ed irriguardosi. E ciò è così da sempre: fin da quando siamo bambini ci insegnano a chiedere prima ai genitori (che trattano i figli come fossero un loro possesso), ci spingono a non pensare con la nostra testa e a stare al nostro posto (soprattutto a scuola), e la religione non aiuta di certo: devi piuttosto comportarti in un certo modo per ottenere l’approvazione del tuo Dio, altrimenti ciò che ti spetta sono punizioni e dannazione eterna.

La ricerca dell’approvazione altrui è altresì nociva perché tendiamo generalmente ad assimilare il rifiuto di una nostra idea, al rifiuto di tutti noi stessi. Ma dobbiamo imparare a convivere col fatto che esisterà sempre qualcuno che ci disapproverà. Tutto sommato, ci va bene anche così, e preferiamo affidarci all’approvazione altrui per poi avere la possibilità di addossargli la colpa dei nostri stati d’animo, senza pensare che la conseguenza di questo comportamento è che non cambieremo mai.

La strada giusta da percorrere è quella di esercitarsi ad ignorare la disapprovazione, e Dyer ci da’ qua e là qualche escamotage da mettere in pratica per perseguire questo obiettivo:

  • Smettere di stare sulla difensiva accampando scuse o cercando di difendersi
  • Ringraziare l’altro per la sua opinione e dirgli che continuiamo ad essere convinti di ciò che pensiamo
  • Smettere di voler convincere l’interlocutore a tutti i costi della giustezza della nostra posizione
  • Cominciare a fidarsi un po’ di più di noi stessi e delle nostre decisioni (se fatte con criterio, e non prese per ansia o paura).

Questa è soltanto un’infarinatura generale e affatto esaustiva del libro di Dyer (che ovviamente vi invito a leggere), ma mi piacerebbe comunque approfondire determinati aspetti per darmi e darvi ulteriori spunti di riflessione che in un modo fortemente omologato come quello di oggi sono merce rara.

Quindi prossimamente mi impegno a pubblicare alcuni post che scendano nel dettaglio di ciascuna “zona erronea” per cercare di comprenderla a pieno e condividere con voi gli strumenti per potersene liberare. Stay tuned 😉

– II parte – Liberarsi del passato

Tu sei il risultato di tutte le immagini che hai dipinto di te stesso […] e ne puoi sempre dipingere di nuove.

Approfondiamo la ferita da abbandono e la maschera del dipendente

Vi è mai capitato, durante una conversazione, di bloccarvi improvvisamente (per rabbia o delusione) quando vi siete accorti che il vostro interlocutore buttava l’occhio all’orologio proprio mentre voi stavate parlando? Per caso in passato siete stati dei bambini deboli e cagionevoli? Siete miopi? Oppure ancora: odiate mangiare da soli e non vi sognate neanche di lasciare qualcosa nel piatto? Se una o più di queste situazioni vi sono familiari, potreste soffrire della ferita da abbandono.

E’ tra il primo ed il terzo anno di età che il bambino vive la ferita da abbandono con il genitore del sesso opposto. Non è raro che ci soffre di abbandono, soffra anche per il rifiuto: un bambino può sentirsi rifiutato dal genitore dello stesso sesso, e abbandonato da quello di sesso opposto che (secondo lui) avrebbe dovuto impedire all’altro genitore di rifiutarlo. Un po’ un cane che si morde la coda a leggerlo così: ma quando siamo piccolissimi, non abbiamo riferimenti e punti saldi che ci consentano di razionalizzare ciò che succede intorno a noi, e quindi mano a mano ci costruiamo una maschera che ci aiuti ad alleggerire la sofferenze che proviamo: in questo caso, la maschera del dipendente. Quella da abbandono è una ferita che dovremmo cercare di guarire al più presto, perché finché continueremo a soffrirne e ad essere in collera (inconsciamente o meno) con uno dei nostri genitori, le relazioni con le persone dello stesso sesso di quel genitore saranno complicate anche in età adulta.

Ma di cosa soffre un dipendente? Del non sentirsi “nutrito” dal punto di vista affettivo. Questa mancanza, paradossalmente, si riflette spesso nell’ostentazione di un apparente sicurezza: chirurgia estetica e sviluppo eccessivo dei muscoli attraverso il body-bulding sono i mezzi più utilizzati. Ma più semplicemente, in ogni situazione in cui cerchiamo di nascondere il nostro corpo agli altri, stiamo in realtà cercando di nasconderlo a noi stessi, insieme alle ferite che esso riflette.

Il dipendente lo si può riconoscere spesso nei panni di “salvatore”; non è inusuale che si comporti da genitore nei confronti dei fratelli, o che cerchi in tutti i modi di salvare dalle difficoltà la persona che ama; in ogni caso cerca di farsi carico di responsabilità che non sono sue, e questo gli provoca spesso forti mal di schiena.

Altra caratteristica del dipendente, sono gli “alti e bassi”: per un periodo è felice e spensierato, poi improvvisamente si sente triste e abbattuto; il fatto che non ci sia una causa scatenante lo porta a riflettere (il che non vuol dire che arrivi alla risposta che sta cercando). Potrebbe essere forse la paura della solitudine la spiegazione dei suoi crolli? Di certo, il dipendente avverte più di qualunque altra maschera il senso profondo della tristezza, senza poter minimamente indovinare da dove essa scaturisca. Cercare la presenza degli altri può aiutarlo a ricacciarla, così come abbandonare la persona o la situazione che (secondo lui), è causa di questa tristezza.

Ciò che più anela, è il sostegno, l’approvazione altrui. Spesso può passare per uno che ha difficoltà a prendere decisioni, ma in realtà se dubita della propria scelta è perché ha paura di non trovare il consenso degli altri.

Coloro che soffrono della ferita da abbandono, sono spesso in conflitto con se stessi perché, se da un lato vorrebbero molte attenzioni, dall’altro temono che chiedendone troppe possano disturbare ed essere per questo definitivamente abbandonati. La stessa cosa succede quando sono in coppia: molto spesso preferiscono credere che tutto vada a gonfie vele solo per la paura di essere abbandonati, o addirittura lasciare per non essere lasciati (sembra assurdo vero?).

Il “brutto vizio” di chi soffre di abbandono, è credere che comportandosi in modo sempre carino e gentile con gli altri, anche gli altri si comporteranno di conseguenza, cercando di non risultare freddi o autoritari nei suoi confronti. Ma mai credenza fu più sbagliata, e ogni atteggiamento “brusco” che inevitabilmente gli si presenta davanti, fa scoppiare il lacrime il dipendente. Tra i pro, c’è sicuramente la forte empatia che riesce a provare nei confronti degli altri; ma anche questa può diventare un arma a doppio taglio quando si lascia invadere del tutto dalle emozioni altrui.

Chi soffre di ferita da abbandono potrebbe soffrire anche di agorafobia: spesso definita “fobia degli spazi aperti e della folla” (anche un supermercato rientra in questa definizione). Gli agorafobici hanno il timore del giudizio degli altri in relazione allo stare male in pubblico, oppure temono di stare male in situazioni o luoghi in cui non potrebbero essere soccorsi o da cui non possono fuggire; di conseguenza, si attivano meccanismi di evitamento delle situazioni ansiogene al fine di escludere la possibilità dell’insorgenza del panico.

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Chi soffre di questa ferita, può avere un corpo allungato, sottile, ipotonico, floscio, con gambe deboli e schiena curva, nonché occhi grandi e tristi. Potrebbe soffrire anche di bulimia.

Ovviamente, a seconda dell’intensità della ferita che ci portiamo dentro, tutte le caratteristiche fisiche e comportamentali descritte fino ad ora potrebbero presentarsi in maniera più o meno evidente. Infatti, oltre ad osservare il nostro fisico e i nostri atteggiamenti, dovremmo fare molta attenzione a ciò che ci disturba: molto spesso rimproveriamo agli altri tutto ciò che noi stessi facciamo e non vogliamo vedere.

(Qui il primo post sulla ferita da abbandono).

La mia cellulite

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Ci sono momenti in cui mi ritrovo improvvisamente ad annaspare tra i flutti agitati dei miei pensieri, come una bottiglia che venga trascinata dalle correnti del mare senza possibilità di replica.  Non ricordo mai il tragitto che mi ha condotto fin lì, ed ogni volta fatico enormemente a trovare un’appiglio che mi salvi dal mare in tempesta e mi permetta di tornare a riva. Ma poi alla fine quella via di fuga la trovo sempre, e una volta in salvo rimprovero me stessa per aver perso il controllo: basta un momento di disattenzione, e la trappola è lì che mi attende a braccia aperte, instancabile.

E non mi rimprovero certo per i sogni ad occhi aperti…quelli non li faccio ormai da molto tempo….ma piuttosto per il biasimo ed i sensi di colpa a cui permetto di sopraffarmi, a cui permetto di farmi sentire inutile e sbagliata.

E pensare che tutto succede soltanto per mancanza di attenzione. Sì, è vero, ho molti difetti. Sì, a volte vorrei essere diversa rispetto a quello che sono (ma mai un’altra persona). Sì, spesso desidero di più o soltanto di meglio. Ma tutto questo accade soltanto quando lascio i pensieri liberi di fluire senza una direzione ben precisa. E in mezzo a quelle onde, senza nessuno al comando del timone, io mi perdo senza neanche rendermene conto.

E’ stancante dover sempre stare  sul pezzo, correre in avanti senza mollare mai, essere costantemente forti per non lasciarsi sopraffare dalla pigrizia, dalla malinconia, dalla rabbia o dai ricordi. Probabilmente quello che manca a me è un po’ di tenacia, un po’ di forza di volontà per andare avanti anche quando avrei soltanto voglia di fermarmi davanti ad un acquario silente e guardare l’inutile andirivieni dei pesci con i loro occhi sempre dischiusi verso il niente.

Solo ultimamente mi sono resa conto di quanto gli stimoli esterni che ho ricevuto negli ultimi 30 anni siano stati insulsi e privi di qualsivoglia contenuto. Dannosi perfino.

Per anni mi hanno esortato ad essere più pratica ed incisiva, più disincantata. Mi hanno indotto esigenze che probabilmente non mi sono mai realmente appartenute, come quella di entrare in una taglia 42 (non riuscendoci) o di essere sempre impeccabile e attenta al giudizio altrui.  Mi hanno istigato all’odio nei confronti di altre donne e di me stessa. Mi hanno convinto che non potevo accettarmi per quella che ero, che avevo bisogno di fare la dieta, di comprare il mascara che allungasse le ciglia all’infinito, di spendere centinaia d’euro in creme che cancellassero le mie smagliature e la mia cellulite. Ero persuasa dall’idea di poter diventare un’altra (più spigliata, più amichevole, più simpatica, più sicura di me, più apprezzata), e dall’idea che solo gli altri sapessero cosa fosse giusto per me e cosa invece non lo era.

E io come una cretina ho sempre seguito ogni indicazione, ogni segnale, ogni sentiero, neanche fossi Alice nel Paese delle Meraviglie. Mi ripetevo: “se lo dicono i grandi, allora sarà vero. Se lo dice la televisione, chi sono io per dissentire? Se tutti lo fanno, perché io non dovrei?”

Poi ho capito. Rendere le persone più simili tra loro, rende anche la vita e le relazioni apparentemente più omologate, semplici e prevedibili; e questo a noi umani, spesso codardi ed insicuri, fa molta gola. Siamo tutti terrorizzati dall’idea di essere considerati diversi e sbagliati, fino al punto di rischiare la solitudine.

Eppure, fare ciò che gli altri mi dicevano di fare mi ha condotto soltanto fino ai lidi più solitari che potessi mai pensare di raggiungere. Adattarmi a ciò che pareva essere perfetto per me, mi ha portato soltanto a rapporti superficiali, a conversazioni banali, a perdere interesse di fronte a  donne che parlavano della ritenzione idrica come del male assoluto in terra.

A questo punto della mia vita, ho deciso che cercherò la mia strada senza aspettarmi che sia qualcun altro a dirmi cosa fare. Ho messo in conto che la strada giusta per me possa non esistere. In quel caso, ho qui pronto un rastrello con cui segnare un nuovo sentiero sul quale condurre me e la mia cellulite.