Come ci si dedica del tempo?

Quante volte vi è capitato di sentire qualcuno dire: “come vorrei tornare bambino per passare le giornate a giocare e non avere pensieri”? Sicuramente almeno una, e probabilmente voi stessi lo avete fatto. Non che ci sia niente di male.

Ma per quanto mi riguarda, della mia infanzia non rivivrei niente; in primis perché non ricordo nulla di straordinario, se non i pomeriggi passati a scrivere poesie pensando che le parole “sole, notte e luna” avrebbero fatto di me una scrittrice famosa; e poi perché sopra ogni cosa avverto vivo e cocente il terrore che mi causa il solo pensare di dover rivivere quegli anni. Questo viaggio indietro nel tempo mi costringerebbe a rivivere anche la mia adolescenza, con tutti i suoi bassi…e bassi, con tutta la disperazione di allora e quella sensazione di non avere vie d’uscita. Mai periodo fu peggiore.

Quando avevo 14/15 anni (ma a ben ricordare il supplizio era cominciato già qualche anno addietro), a casa mia non era concesso “perdere tempo” dedicandosi a se stessi. Prima di ogni altra cosa venivano i doveri: pulire, stirare, far fare i compiti ai fratelli più piccoli, studiare, lavorare. Il retaggio maschilista secondo cui la donna deve soltanto badare ai figli e prendersi cura della casa, andava decisamente per la maggiore nella mia famiglia. Sicuramente la mentalità ottusa dei miei genitori di origini partenopee non aiutava, e desiderare “altro” era considerato un atteggiamento assolutamente deviato. Per giunta, secondo mia madre io “non ero buona a nulla”, ero una “mezzoservizio” capace a stento di fare un buon caffè con la Moka (non so quanto fosse vero, o quanto invece fosse una considerazione di convenienza, utile per le volte in cui non aveva voglia di farlo lei), e ciò comportava (secondo il suo modo di vedere che era l’unico ammissibile) che avrei dovuto impiegare molto più tempo nelle faccende domestiche per imparare a farle come si deve, senza assecondare i grilli per la testa che mi facevano desiderare di cantare o leggere un libro.

Più in generale appare evidente che l’ozio non fosse ben visto, tanto che per dedicarci a ciò che amavamo dovevamo nasconderci, stando attenti a non essere beccati in flagrante; le conseguenze sarebbero state la derisione e le botte, perché sicuramente mia madre avrebbe trovato qualcosa da ridire per farci sentire in colpa, del tipo: “non avete stirato per dedicarvi a quelle cazzate, e domani i bimbi non avranno un grembiule pulito  per la scuola”.

Non è stato un caso che in quel periodo non riuscissi a legarmi ad altre persone: avevo sempre troppo da fare e rimandavo a domani ciò che avrei voluto fare per me. Non mi era concesso avere un’idea personale, e quelle poche che nascevano spontanee venivano prontamente derise ed estirpate con la stessa crudeltà e tenacia che si usa sulle erbacce infestanti.

E’ stato naturale per me crescere con l’idea che l’ozio fosse qualcosa di inutile e nocivo, di cui vergognarsi, capace solo di distogliere la mente dai doveri quotidiani e dagli obblighi che avevo nei confronti della mia famiglia.

Sono cresciuta così, dando credito a ciò che avevo appreso, senza mai rielaborare quel passato non propriamente sereno e coerente. E non utilizzo a caso la parola “coerenza”: dovete sapere infatti che mentre io stavo a casa a sfaccendare e crescere i fratelli piccoli, mia madre prendeva di nascosto i miei vestiti dall’armadio e andava a ballare una sera sì e l’altra pure. Le giornate le passava chiusa nello studiolo che aveva adibito a centro estetico, rimarcando continuamente che lei lì ci lavorava, e che per questo non doveva essere disturbata per nessun motivo. Soltanto qualche anno dopo mi giunsero all’orecchio pettegolezzi che non stentai a prendere per veri, e che avevano come protagonisti delle sue attività lavorative uomini di mezza età che gradivano particolarmente i suoi massaggi.

Voi direte: ok, ma adesso sei grande, sai che quello che hai vissuto non rispecchia il modo “sano” di intendere il tempo per se stessi, quindi ti basterà non pensarci più e il gioco sarà fatto.

Purtroppo devo deludere le vostre aspettative e ammettere che a tutt’oggi non sono in grado di dedicarmi a ciò che amo, tanto più che ho difficoltà ad ammettere che qualcosa mi piace e qualcos’altro no. Aver individuato le radici profonde di questo mio blocco emotivo non é stato sufficiente.

Ne ho parlato con una persona che di blocchi emotivi se ne intende, e quello che mi ha suggerito di fare è semplicemente PROVARE. Dovrei sforzarmi di sperimentare l’ozio (inteso come tempo e attenzioni da dedicarmi) proprio per convincere la bambina che è dentro di me che non le succederà niente di male se passerà un’ora a cantare o se ammetterà di aver voglia di sdraiarsi a leggere un libro anziché dedicarsi alle faccende domestiche.

Percepisco la sua vergogna, il suo senso di colpa che cresce prima ancora di aver anche soltanto pensato di dedicarsi del tempo; sotto voce mi dice “ok, posso provarci, però non voglio che nessuno mi veda o mi senta”. E capisco che la strada sarà in salita.

 

Approfondiamo la ferita da abbandono e la maschera del dipendente

Vi è mai capitato, durante una conversazione, di bloccarvi improvvisamente (per rabbia o delusione) quando vi siete accorti che il vostro interlocutore buttava l’occhio all’orologio proprio mentre voi stavate parlando? Per caso in passato siete stati dei bambini deboli e cagionevoli? Siete miopi? Oppure ancora: odiate mangiare da soli e non vi sognate neanche di lasciare qualcosa nel piatto? Se una o più di queste situazioni vi sono familiari, potreste soffrire della ferita da abbandono.

E’ tra il primo ed il terzo anno di età che il bambino vive la ferita da abbandono con il genitore del sesso opposto. Non è raro che ci soffre di abbandono, soffra anche per il rifiuto: un bambino può sentirsi rifiutato dal genitore dello stesso sesso, e abbandonato da quello di sesso opposto che (secondo lui) avrebbe dovuto impedire all’altro genitore di rifiutarlo. Un po’ un cane che si morde la coda a leggerlo così: ma quando siamo piccolissimi, non abbiamo riferimenti e punti saldi che ci consentano di razionalizzare ciò che succede intorno a noi, e quindi mano a mano ci costruiamo una maschera che ci aiuti ad alleggerire la sofferenze che proviamo: in questo caso, la maschera del dipendente. Quella da abbandono è una ferita che dovremmo cercare di guarire al più presto, perché finché continueremo a soffrirne e ad essere in collera (inconsciamente o meno) con uno dei nostri genitori, le relazioni con le persone dello stesso sesso di quel genitore saranno complicate anche in età adulta.

Ma di cosa soffre un dipendente? Del non sentirsi “nutrito” dal punto di vista affettivo. Questa mancanza, paradossalmente, si riflette spesso nell’ostentazione di un apparente sicurezza: chirurgia estetica e sviluppo eccessivo dei muscoli attraverso il body-bulding sono i mezzi più utilizzati. Ma più semplicemente, in ogni situazione in cui cerchiamo di nascondere il nostro corpo agli altri, stiamo in realtà cercando di nasconderlo a noi stessi, insieme alle ferite che esso riflette.

Il dipendente lo si può riconoscere spesso nei panni di “salvatore”; non è inusuale che si comporti da genitore nei confronti dei fratelli, o che cerchi in tutti i modi di salvare dalle difficoltà la persona che ama; in ogni caso cerca di farsi carico di responsabilità che non sono sue, e questo gli provoca spesso forti mal di schiena.

Altra caratteristica del dipendente, sono gli “alti e bassi”: per un periodo è felice e spensierato, poi improvvisamente si sente triste e abbattuto; il fatto che non ci sia una causa scatenante lo porta a riflettere (il che non vuol dire che arrivi alla risposta che sta cercando). Potrebbe essere forse la paura della solitudine la spiegazione dei suoi crolli? Di certo, il dipendente avverte più di qualunque altra maschera il senso profondo della tristezza, senza poter minimamente indovinare da dove essa scaturisca. Cercare la presenza degli altri può aiutarlo a ricacciarla, così come abbandonare la persona o la situazione che (secondo lui), è causa di questa tristezza.

Ciò che più anela, è il sostegno, l’approvazione altrui. Spesso può passare per uno che ha difficoltà a prendere decisioni, ma in realtà se dubita della propria scelta è perché ha paura di non trovare il consenso degli altri.

Coloro che soffrono della ferita da abbandono, sono spesso in conflitto con se stessi perché, se da un lato vorrebbero molte attenzioni, dall’altro temono che chiedendone troppe possano disturbare ed essere per questo definitivamente abbandonati. La stessa cosa succede quando sono in coppia: molto spesso preferiscono credere che tutto vada a gonfie vele solo per la paura di essere abbandonati, o addirittura lasciare per non essere lasciati (sembra assurdo vero?).

Il “brutto vizio” di chi soffre di abbandono, è credere che comportandosi in modo sempre carino e gentile con gli altri, anche gli altri si comporteranno di conseguenza, cercando di non risultare freddi o autoritari nei suoi confronti. Ma mai credenza fu più sbagliata, e ogni atteggiamento “brusco” che inevitabilmente gli si presenta davanti, fa scoppiare il lacrime il dipendente. Tra i pro, c’è sicuramente la forte empatia che riesce a provare nei confronti degli altri; ma anche questa può diventare un arma a doppio taglio quando si lascia invadere del tutto dalle emozioni altrui.

Chi soffre di ferita da abbandono potrebbe soffrire anche di agorafobia: spesso definita “fobia degli spazi aperti e della folla” (anche un supermercato rientra in questa definizione). Gli agorafobici hanno il timore del giudizio degli altri in relazione allo stare male in pubblico, oppure temono di stare male in situazioni o luoghi in cui non potrebbero essere soccorsi o da cui non possono fuggire; di conseguenza, si attivano meccanismi di evitamento delle situazioni ansiogene al fine di escludere la possibilità dell’insorgenza del panico.

abbandono

Chi soffre di questa ferita, può avere un corpo allungato, sottile, ipotonico, floscio, con gambe deboli e schiena curva, nonché occhi grandi e tristi. Potrebbe soffrire anche di bulimia.

Ovviamente, a seconda dell’intensità della ferita che ci portiamo dentro, tutte le caratteristiche fisiche e comportamentali descritte fino ad ora potrebbero presentarsi in maniera più o meno evidente. Infatti, oltre ad osservare il nostro fisico e i nostri atteggiamenti, dovremmo fare molta attenzione a ciò che ci disturba: molto spesso rimproveriamo agli altri tutto ciò che noi stessi facciamo e non vogliamo vedere.

(Qui il primo post sulla ferita da abbandono).