Come trattare gli altri e farseli amici

Già da un paio d’anni ho deciso di cambiare approccio con i tanto agognati quanto temuti obiettivi del nuovo anno: semplicemente non ne faccio, perché trovo più utile (e meno scoraggiante) focalizzarmi su obiettivi molto più grandi ma con scadenza a lungo termine.

Ho riflettuto a lungo sugli aspetti della mia vita che ho sempre reputato “difettosi”, da sistemare, e ho pensato che se avessi “aggiustato” quelli, anche il resto sarebbe andato a posto senza che dovessi far altro. Di certo, l’aspetto della “socialità” è sempre stato uno dei più carenti e nei quali ho sempre avuto più difficoltà a districarmi, specialmente nel quotidiano.

Prima di cinque figli, sono sempre stata abituata a cavarmela da sola, a non chiedere mai aiuto, a tacere i problemi e a mostrare agli altri sempre e soltanto la faccia sorridente (e per questo non sempre sincera). Fin da quando sono piccola, “gli altri” hanno sempre rappresentato un ostacolo insormontabile. Solo adesso capisco che la colpa non è veramente degli “altri” (che comunque a volte sembrano fare di tutto per metterti i bastoni tra le ruote), ma soltanto mia e di come (non) ho reagito ai loro sguardi, ai loro commenti, ai loro pensieri. Ma nonostante adesso io abbia molto chiaro che è importante non lasciarsi influenzare da tutto ciò che dice e crede la gente, ho ancora difficoltà a rapportarmi con tutto ciò che va oltre a mia pelle.

Così, in un percorso di crescita ed evoluzione personale che ho deciso di intraprendere, ho capito che avrei dovuto cominciare esattamente dalla cosa che mi terrorizzava di più: la relazione con gli altri.

Ho trovato centinaia di “percorsi” strutturati in punti e frasi ad effetto, fin anche in esercizi pratici: ognuno di questi gridava al miracolo e ad una rinascita garantita. E vi dirò: ne ho pure provati tre o quattro, ma i risultati sono stati deludenti e finanche inesistenti. Poi, continuando a cercare (evitando come la peste corsi con slogan come “dieci passi per raggiungere la felicità”, o “esercizi pratici per ritrovare la propria autostima”), mi sono imbattuta in un libro dei primi anni del 900′: Come trattare gli altri e farseli amici, pubblicato in America nel 1936 dalla casa editrice Simon&Schuster e in Italia da Bompiani.  L’autore, Dale Breckenridge Carnegie (1888 – 1955), è stato uno scrittore ed insegnante statunitense, che fu, tra le altre cose, promotore di numerosi corsi sullo sviluppo personale, vendita, leadership, corporate training, relazioni interpersonali e abilità di parlare in pubblico. Come trattare gli altri e farseli amici ha venduto oltre quindici milioni di copie in tutto il mondo ed è tuttora popolare, è uno dei primi best seller nella storia dei libri sullo sviluppo personale.

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Ho imparato qualcosa da questa lettura? Sì.

La consiglierei? Sì.

Ammetto che dopo la prima metà del libro, i concetti cominciano ad essere un po’ ridondanti e probabilmente fin troppo carichi di esempi, ma ciò non toglie che le nozioni che stanno alla base di questa guida siano tanto semplici quanto importanti.

Non trattandosi di un romanzo, non credo di fare spoiler anticipandone le parti che ho ritenuto più convincenti e utili al raggiungimento del mio obiettivo: quello di riuscire ad avere un rapporto più sano e privo di dipendenze con le persone che mi circondano.

Ecco i punti che ho trovato più illuminanti, le chiavi di lettura che sono certa mi permetteranno di capire meglio gli atri (oltre che me stessa):

  1. Novantanove volte su cento, la gente non accetta critiche sul proprio modo di comportarsi, per quanto sbagliato possa essere. La critica è inutile perché pone le persone sulla difensiva e le induce immediatamente a cercare una giustificazione. E’ pericolosa perché ferisce l’orgoglio della gente, la fa sentire impotente e suscita risentimento. […] Ci piace continuare a crede nelle cose in cui siamo abituati, a considerarle come vere, e quando le vediamo attaccate o messe in dubbio la nostra presunzione ci spinge a trovare ogni scusa per difenderle. Il risultato è che la maggior parte dei nostri cosiddetti “ragionamenti” consiste nel trovare argomenti per sostenere ciò in cui crediamo  (The Mind in the Making – James Harvey Ribnson). […] C’è più comunicatività in un sorriso che in una minaccia perché l’incoraggiamento è un sistema educativo più efficace della repressione.” A tal proposito vi invito a leggere la bellissima lettera di W.Livingstone Larned – Father Forgets, dedicata a suo figlio (e in buona parte anche a se stesso). La trovate qui.
  2. L’assunto più prezioso, è stato sicuramente quello che invita a focalizzarsi sulla natura umana: “il bisogno più sentito della natura umana è il desiderio di essere importanti […] il bisogno di perseguire infaticabilmente l’apprezzamento altrui”. […] La gente riterrebbe un’impresa criminosa lasciare la propria famiglia o i propri dipendenti a digiuno per sei giorni; eppure non hanno problemi a lasciarli sei giorni, o sei settimane, o a volte addirittura sei anni, senza quella gratificazione della quale hanno bisogno assoluto, tanto quanto del cibo. […] “Non c’è niente di cui io abbia tanto bisogno quanto del nutrimento per la mia autostima” (Alfred Lunt). […] Smettiamo per un momento di pensare ai nostri successi, ai nostri desideri. Cerchiamo di ricordare anche i pregi altrui. […] date sempre agli altri l’impressione di essere importanti”.
  3. La sola via sicura per influenzare una persona consiste nel converse di quanto le interessa. […] ci si fa più amici in due mesi mostrandosi interessati altri altri che non in due anni tentando di indurre gli altri a interessarsi a noi.
  4. Lottando si ottiene sempre poco; cedendo si ottiene sempre di più di quanto si sperava.[…] Tutti gli sciocchi sono pronti a difendere i loro errori, ma ametterli innalza il colpevole sopra la massa e gli conferisce dignità e serenità.

I concetti del libro non si esauriscono con questo breve elenco, sono presenti infatti molti piccoli e grandi escamotage e “trucchetti” per convincere gli altri a passare dalla vostra parte, o per “indorare la pillola” quando si tratta di impartire ordini di qualsiasi tipo. Si tratta di consigli utili per un livello “avanzato”, livello fino al quale certamente non intendo spingermi per il momento.

Al di là dei concetti spiegati nel testo, vorrei condividere con voi una breve frase in cui Carnegie parla della felicità, molto affine al mio sentire:

“La felicità non dipende dalle condizioni esterne, ma dal proprio stato interiore. Non è quello che avete o che siete o dove siete o che cosa state facendo che vi può rendere felici o infelici. E’ quello che pensate.”

Personalmente ho acquistato il libro in formato e-book per il mio Kindle a meno di 4 euro, ma potete trovarlo ovviamente anche in formato cartaceo (12 euro su Amazon).

 

Non criticate, non condannate, non recriminate

Stamattina mi sono imbattuta per caso in questa semplice lettera scritta da un padre al proprio figlio, e non ho potuto fare a meno di emozionarmi profondamente e, cosa non meno importante, di imparare una lezione davvero importante. Ecco perché vorrei che dedicaste un minuto alla lettura di queste poche righe, che voi siate genitori oppure no.

Father Forgets – di W.   Livingstone Larned

“Ascolta, figlio: ti dico questo mentre stai dormendo con la manina sotto la
guancia e i capelli biondi appiccicati alla fronte. Mi sono introdotto nella tua camera da solo: pochi minuti fa, quando mi sono seduto a leggere in biblioteca, un’ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto. E stavo pensando a queste cose: ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamani sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe. Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.
A colazione, anche li ti ho trovato in difetto: hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo. Hai spalmato troppo burro sul pane e, quando hai cominciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato: “Ciao, papino !” e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: “Su diritto con la schiena!” E tutto e ricominciato da capo nel tardo pomeriggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare alle biglie e si vedevano le calze bucate. Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoti a casa davanti a me. Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura. Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell’offesa subita? Quando ho alzato gli occhi dal giornale, impaziente per l’interruzione, sei rimasto esitante sulla porta. “Che vuoi?” ti ho aggredito brusco. Tu non hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue braccine mi hanno stretto con l’affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai. Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale. Be’, figlio, e stato subito dopo che mi e scivolato di mano il giornale e mi ha preso un’angoscia terribile. Cosa mi sta succedendo? Mi sto abituando a trovare colpe, a sgridare; e questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto? Non che non ti volessi bene, beninteso: solo che mi aspettavo troppo dai tuoi pochi anni e insistevo stupidamente a misurarti col metro della mia età.
E c’era tanto di buono, di nobile, di vero, nel tuo carattere! i1 tuo piccolo cuore cosi grande come l’alba sulle colline. Lo dimostrava il generoso impulso di correre a darmi il bacio della buonanotte. Nient’altro per stanotte, figliolo. Solo che sono venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergogna.
E una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio. Ma domani s’aro per te un vero papa. Ti s’aro compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti. Continuerò a ripetermi, come una formula di rito: “‘E ancora un bambino, un ragazzino!” Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo. E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire che sei ancora un bambino. Ieri eri dalla tua mamma, con la testa sulla sua spalla. Ti ho sempre chiesto troppo, troppo.”

Anziché criticare senza riflettere,dovremmo cercare di immaginare perché la gente fa quello che fa. Prima dicercare di cambiare gli altri, dovremmo almeno aver migliorato noi stessi.