La trappola di avere sempre un programma

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Alla maggior parte di noi, capita di pianificare la propria vita prevedendo che negli anni a venire ciò che stiamo decidendo “adesso” andrà sempre bene: a 25 anni voglio sposarmi, fare un figlio a 30, andare in pensione a 60. Tendiamo a controllare “la nostra agenda” per capire a che punto siamo o a quale dovremmo essere, e ci sentiamo dei falliti se non riusciamo a rispettare questa tabella di marcia.

Sicuramente l’atteggiamento più sano sarebbe quello di prendere nuove decisioni al momento debito, avendo abbastanza fiducia in noi stessi da permetterci di cambiare programma. Del resto la sicurezza in se stessi è l’unica sicurezza durevole, anche perché nessuno potrà mai garantirci alcunché per il futuro. Ma quanti di noi possono vantare una cieca sicurezza in sé stessi?

Purtroppo nella nostra società il timore di sbagliare viene inculcato sin dall’infanzia, eppure Dyer nel suo libro “Le vostre zone erronee” spiega che il fallimento di per sé non esiste, e che si tratta solo di un’opinione altrui su come una certa cosa avrebbe dovuto essere portata a termine. Se si fallisce, lo si può fare soltanto secondo il proprio criterio di valutazione, non secondo quello degli altri. E come se non bastasse, oltre a pensare di aver fallito nella tal cosa, siamo soliti assimilare quel fallimento alla stima di se’: ma fallire in qualcosa non significa aver fallito come persona. D’altronde veniamo continuamente spinti a fare le cose al meglio delle nostre possibilità, ma chi ha detto che non si possono fare le cose con naturalezza e mediocrità? Anche perché per paura di non riuscire a fare una cosa al meglio, il più delle volte finisce che non la facciamo affatto, e abbandoniamo prima ancora di aver provato.

Winston Churchill disse sulla mania della perfezione:”Perché dovresti fare tutto bene? Chi deve metterti il voto?”

Perfezione vuol dire immobilità: se hai esigenze di perfezione, non tentarai mai nulla, perché il concetto di perfezione non è applicabile agli essere umani. Nelle attività che non ci piacciono, il solo fare è più importante del riuscire. Purtroppo i bimbi imparano subito il messaggio che li induce a misurare il proprio valore sulla base dei propri insuccessi, dunque tendono ad evitare le attività in cui non eccellono. Sono portati ad arrendersi dopo il primo fallimento, perché non hanno stima in se’. Ma la verità è che non si impara nulla dal successo, mentre invece si impara molto dai fallimenti.

Di seguito Dyer ci propone degli esempi di comportamento dettati dalla paura per l’ignoto e del fallimento:

  • mangiare sempre le stesse cose, evitando sapori diversi ed esotici: anche se ognuno ha i propri gusti, rifiutare di assaggiare cibi che non si conoscono è pura rigidità;
  • indossare lo stesso tipo di abiti, non provare mai un nuovo taglio, non cambiare stile;
  • leggere sempre gli stessi giornali e riviste e non ammettere il punto di vista contrario;
  • avere paura di andare altrove perché la gente, la lingua, i costumi sono differenti;
  • temere di non saper fare bene una cosa e per questo evitarla;
  • evitare chiunque venga definito “deviante” anziché cercare di conoscerlo meglio;
  • tenersi un impiego che non ci piace per paura di non trovare altro o per le incognite di un nuovo lavoro;
  • restare imprigionati in un matrimonio infelice per paura di ciò che gli altri potrebbero pensare e per paura di non trovare un’altra persona che sia adatta a noi;
  • passare le ferie sempre nel solito posto, nella stessa stagione;
  • fare le cose in funzione del risultato e non del godimento, e quindi fare solo quelle che si fanno bene ed evitare quelle in cui si potrebbe fallire e risultare mediocri;
  • essere incapaci di cambiare programma se si presenta un’alternativa interessante;
  • preoccuparci del tempo e lasciare che siano gli orologi a regolare la nostra vita;
  • nei rapporti sessuali, fare sempre le stesse cose nelle stesse posizioni;
  • nascondersi sempre dietro agli stessi amici;
  • tenersi in disparte per paura di avventurarsi in conversazioni con estranei;
  • condannarsi se non si riesce in tutto ciò che si intraprende.

Tutti questi atteggiamenti ci permettono di tenere a bada la paura dell’ignoto, anche se ciò è costoso in termini di crescita e soddisfazioni. E’ più facile percorrere un sentiero battuto che esplorare, perché le sfide possono costituire una minaccia.

Con la scusa di posporre la soddisfazione personale (comportamento che abbiamo sempre sentito definire “maturo”), restiamo con ciò a cui siamo avvezzi e giustifichiamo quel comportamento: in realtà restiamo come siamo per non affrontare ciò che non conosciamo.

Di seguito un breve elenco con alcune strategie per affrontare l’ignoto.

  • Cercare, in maniera selettiva, di sperimentare nuove cose (banalmente anche al ristorante o in palestra);
  • frequentare persone che non conosciamo;
  • rinunciare a volere sempre una ragione per tutto ciò che facciamo: possiamo fare le cose semplicemente perché lo desideriamo;
  • cominciare a correre rischi che ci facciano uscire dalla routine;
  • interiorizzare il concetto che possiamo essere efficienti non grazie alle circostanze esterne ma grazie alla nostra forza interiore: le nostre capacità ci consentono di far fronte all’ignoto se glielo permettiamo;
  • quando ci sorprendiamo ad evitare ciò che non conosciamo, domandiamoci “Qual è la cosa peggiore che potrebbe capitarmi?”. Probabilmente scopriremo che le paure che abbiamo sono sproporzionate rispetto alle conseguenze reali
  • fare qualcosa di sciocco e non ben visto: spesso la paura di sbagliare equivale alla paura di risultare ridicoli o venire disapprovati. Se lasciamo che gli altri si tengano le loro opinioni, le quali non hanno nulla a che fare con noi, possiamo cominciare a valutare il nostro comportamento secondo i nostri (e non altrui) criteri di giudizio. In questo modo potremo stimare le nostre capacità non come migliori o peggiori,  ma semplicemente come diverse da quelle degli altri;
  • Valutare il nostro comportamento non sulla base di ciò in cui crediamo (e quindi del passato) ma di quello che scaturisce dall’esperienza presente. Possiamo essere quello che vogliamo. Quando ricaschiamo nel tipico comportamento evasivo ed esente da rischi, prendiamone coscienza e ripetiamoci che non c’è nulla di male a non sapere dove si stia andando in ogni momento della propria vita. La consapevolezza di una vita di routine è il primo passo per uscirne.

Non è importante sapere esattamente dove stiamo andando, ma è fondamentale essere sulla nostra strada e non su quella che qualcun ha deciso essere adatta a noi.

 

Il desiderio di sentirsi importanti

Siete mai stati assaliti dal desiderio impellente di cambiare?

Cambiare look, cambiare lavoro, cambiare la persona che avevate accanto, cambiare vita?

Vi siete mai sentiti legati a terra, immobili come statue di marmo sepolte dal fango?

Io mi sono sentita così per lungo tempo, in trappola come un palloncino stretto nella mano di un bambino che proprio non voleva saperne di lasciarmi volare via. Quel bambino lo conosco bene: è il mio passato, l’insieme delle esperienze negative e delle brutte cose che mi sono state dette e di cui mi sono convinta man mano che diventavo grande.

Mi sono illusa, fino a non troppo tempo fa, che salire determinati gradini “sociali” fosse la chiave per raggiungere sogni ed obiettivi e, perché no, la felicità.

Probabilmente capita anche a voi di inseguire qualcosa che neanche voi sapete come definire: sapete solo che la volete a tutti i costi. Allora vi lanciate in mille nuove avventure, certi che sarà la volta buona. Un lavoro stabile, un fidanzamento, il matrimonio, dei figli, case, libri, viaggi, fogli di giornale…

Poi magari quegli “status” sociali riuscite davvero a raggiungerli, ma nonostante questo sentite che c’è qualcos’altro che vi sfugge passandovi tra le dita come un soffio di vento. 

Non dovremmo colpevolizzarci troppo per questo. D’altronde ci hanno da sempre persuasi che la felicità fosse una mera somma di “cose”: un lavoro + una casa + una macchina + un compagno di vita + dei figli + una pizza la domenica sera = felicità. Ma l’anima non si ciba soltanto di “cose”: ha bisogno anche e soprattutto di amore, di approvazione, di incoraggiamento. 

Un noto filosofo statunitense, un certo John Dewey, disse che il bisogno più sentito della natura umana è il desiderio di essere importanti, e che la gente lo persegue infaticabilmente al pari di procurarsi cibo, sonno e denaro. Eppure, quando si tratta di “prenderci cura” delle persone che amiamo, non soddisfiamo quasi mai questo bisogno primario. Non lasceremmo i nostri figli un solo giorno senza cibo, ma li lasciamo  per anni senza la gratificazione di cui hanno bisogno tanto quanto del cibo. Così hanno fatto con noi i nostri genitori perché così è stato fatto con loro quando erano solo dei bambini. Probabilmente il cibo non gli è mancato, ma forse la fiducia in loro stessi sì.

A volte gratificare qualcuno può cambiargli la vita, e credo che dovremmo spezzare questa catena ripartendo proprio dalla fiducia in noi stessi per cambiare DAVVERO una realtà che sentiamo un po’ stretta: è un sentiero nuovo, inesplorato, che può fare anche un po’ paura, ma che allo stesso tempo immagino costellato di momenti di felicità. Dicono che una volta imboccato quel sentiero non si avverta più il bisogno di correre, ma soltanto il piacere di godersi il viaggio.