
Sembrerà impossibile ma questo è letteralmente ciò che è accaduto: ho semplicemente dimenticato di scrivere.
Verso la fine dello scorso anno ho cominciato ad addentrarmi in una palude scura e sinistra, circondata da alberi senza foglie i cui rami mi graffiavano la pelle del viso, delle gambe, della pancia e delle braccia ad ogni passo. E sono stata talmente intenta a cercare di difendermi da quei rami che mi sono completamente persa.
Mi sono sentita sola, abbandonata, sconfitta. Ma ciò che mi ha spaventato di più non è stata la certezza di essermi smarrita, ma la convinzione che non avesse più senso cercare una qualunque via d’uscita. Mi sono detta che se mi fossi lasciata morire, per nessuno avrebbe fatto differenza.
Le domande arrivavano come nuvoloni grigi carichi di pioggia ad adombrare ogni altro pensiero.
Perchè dovrei continuare ad alzarmi ogni mattina alla stessa ora?
Perchè dovrei continuare a lavorare 9 o 10 ore al giorno senza mai un momento per me e le persone che amo?
Cosa mi resta se non il fegato logorato dallo stress di un lavoro che non mi da’ niente se non mal di pancia e cattivo umore?
Che senso ha questa vita triste e mediocre?
Che senso ha questo desiderio di materinità che non può essere esaudito?
E se non ho più voglia di ridere, di truccarmi, di cantare o di fare l’amore, cosa resta di bello in questa vita che valga la pena di essere vissuto?
Per chi o per che cosa dovrei continuare a soffrire ad ogni passo?
Mentre vedevo la vita sbocciare nel ventre di altre donne, mi sono convinta che nel mio potesse esserci spazio soltanto per il vuoto. Un vuoto fatto di dolore impossibile da riempire.
Mi sarei lasciata morire pur di non vivere un’altra giornata inutile e senza speranza.
Solo all’ultimo secondo, un instante prima della resa finale, ho gridato cercando aiuto, e l’aiuto fortunatamente è arrivato. Ho cominciato un percorso di terapia che fra alti e bassi mi ha dato una mano a tirarmi fuori dalla melma più densa e a scansare i rami più sporgenti.
Ancora oggi non so quali siano i dilemmi mentali e inconsci che mi hanno spinto ad addentrarmi in una palude senza vita, ma qualcosa mi dice che ha avuto a che fare col senso dell’orientamento che avevo perduto correndo dietro al tempo, al lavoro, alle scadenze, alla spesa, alle lavatrici, alle incombenze quotidiane, al concentrarmi sull’essere ciò che gli altri si aspettavano che fossi. Sicuramente ha a che fare con l’idea sbagliata e malsana che ho di me, che non mi consente di prendere una critica come un mattoncino utile a costruire, ma piuttosto come un’ulteriore scossa alle pareti già traballanti che tengono su la mia anima a malfatica.
Il fatto è che quando per anni ti hanno ripetuto che non valevi niente, per quanto provi a scostarti dalle ingiuste considerazioni che altri si sono arrogati il diritto di pronunciare a voce alta su di te, ogni passo falso ti arriva comunque come una stilettata al cuore che grida “te l’avevo detto che non ce l’avresti fatta?”.
Infatti il prossimo step della terapia consisterà nel lavorare su meccanismi vecchi di 30 anni, assecondare pian piano le risposte inconsce portandole alla luce, sradicanto la cattiva abitudine di buttarsi palate di merda addosso prima ancora che possano farlo gli altri.
Entro qualche mese spero di riuscire ad abbandonare i condizionamenti marci e malati che mi sono stati lasciati in eredità, e più di ogni altra cosa vorrei lasciare per strada la zavorra del senso di colpa e dell’ansia che incombono sulla mia testa come mannaie pronte a cadere.
Durante i mesi passati è come se fossi entrata in trance e avessi dimenticato che esistono cose, come il canto o la scrittura, che riescono a farmi stare a galla anche nei momenti più bui. Ecco perchè non ho più scritto, perchè non ho più cantato, perchè mi sono chiusa nel bordello informe generato dei miei pensieri. Prometto che non lo dimenticherò più.