La mia ultima poesia

Non ricordo neanche una parola della mia ultima poesia, ma ho bene impresso il dolore che provai quel giorno seduta al banco di scuola, mentre con la vista annebbiata cercavo di rileggere le parole appena scritte e ormai già impastate alle lacrime che cascavano sul foglio pesanti come pezzi di grandine.

Avevo dodici anni e nessuna voglia di stare al mondo. Eppure non era mia la bara al centro della navata.

Non ricordo che mese fosse, ma di sicuro faceva già caldo perché avevo indosso un’orribile maglietta arancione extra large a maniche corte coi ghiaccioli disegnati sopra che mi ostinavo a mettere per nascondere le prime forme. Una compagna di classe mi chiamò al telefono di casa (il Sirio bianco della SIP) per dirmi sottovoce “Valentina è morta. Ha avuto un arresto cardiaco in spiaggia e l’ambulanza non è arrivata in tempo”.

Ricordo che sorrisi. Che scherzo di cattivo gusto.

Quando capii che non si trattava di uno scherzo non seppi come prenderla. Non era mai morto nessuno che conoscessi. Come ci si comportava davanti alla morte? Non lo sapevo, ma dalla tv avevo imparato che non era affatto una bella cosa. Riferii il messaggio a mia madre con la bocca contratta in una smorfia molto simile ad un sorriso, e lei si arrabbiò moltissimo gridandomi contro:”sei forse diventata stupida per ridere di una tragedia simile?”. Non ero stupida; ero soltanto stordita ed inerme, impreparata all’evento più naturale della vita. Se nasci poi devi anche morire, e può accadere anche se sei giovane, ma nessuno te lo spiega. Ci arrivi da solo o quando la morte ti sfiora, o quando si porta via qualcuno che conoscevi o peggio ancora che amavi.

Ci fu una riunione straordinaria di studenti e professori nella scuola già chiusa per le vacanze estive. La prof di italiano ci chiese di scrivere una poesia, dopo di che ne avrebbe scelta una da far recitare in chiesa durante il rito funebre. Lanciai uno sguardo al banco di Valentina come se la mia vista avesse il potere di farla riapparire come per magia. Speravo che da un momento all’altro qualcuno spalancasse la porta alla telecamera di Scherzi A Parte. Invece il banco rimase vuoto e mi fece male realizzare che da quel momento lo sarebbe stato per sempre. A dodici anni hai ancora tutto il tempo del mondo e fai fatica a percepire che passerà anche per te. Finché di anni non ne compi almeno trenta non ti rendi conto che pure il “per sempre” finisce. Tipo il per sempre di Valentina che è finito nel 1998.

Iniziai a scrivere la mia poesia pensando ai suoi capelli biondi, ai suoi occhi azzurri, al suo bellissimo sorriso di ferro (esiste qualcuno che non abbia portato l’apparecchio alle scuole medie?), all’angioma sulla guancia destra che pareva disegnato con un pennarello rosso solo un po’ sbiadito. Piansi fino all’ultima lacrima vergognandomi come una ladra: io e Valentina eravamo solo compagne di classe, chi mi dava il diritto di versare più lacrime della sua migliore amica? Alla fine trascrissi la poesia in bella copia e la consegnai alla prof.

Il giorno del funerale in chiesa nessuno fiatava. Incrociavo soltanto sguardi cupi e assenti, smarriti dentro abissi scuri che mi parevano senza fondo. Mi sentii quasi invidiosa del fatto che tutte quelle persone fossero lì per lei, e pensai che sarei voluta morire io al posto suo, che lei avrebbe meritato la vita più di quanto la meritassi io che non sapevo che farne, che tanto ai miei genitori non sarebbe importato.

Poi la prof mi intercettò in fondo alla chiesa e mi disse che fra tutte aveva scelto proprio la mia poesia. Mi sentii sprofondare e non ebbi il coraggio di camminare verso l’altare passando accanto alla bara di legno chiaro coperta di fiori. Non sopportavo l’idea di sfiorare anche solo con lo sguardo il dolore dei suoi genitori curvi come giunchi piegati dal vento; avrebbero pensato che quella bella poesiola potevamo ficcarcela su per il c*** io e il resto di quei ragazzini in piena tempesta ormonale; se solo avessero potuto avrebbero scambiato la vita di chiunque di noi con quella di Valentina, immaginavo. E come dargli torto?

Così la prof mandò Daniele al leggio con la mia poesia in mano: il capo chino, la fronte contratta al centro in una ruga profonda quanto la sua tristezza, la voce spezzata quel tanto che bastava per far trapelare il dolore ma nel contempo terminare la lettura. Quindi era così che ci si comportava davanti alla morte, presi appunti mentalmente.

Ascoltai in religioso silenzio la mia ultima poesia senza sapere che lo sarebbe stata, e solo molti anni dopo ebbi la consapevolezza che con Valentina se n’era andato anche un pezzetto di me. Spero lo abbia portato via con sé.

L’ultima poesia

sketch-book

Ci sono momenti in cui mi sento infinitamente sola, in cui mi sento un’aliena di un mondo lontano caduta per sbaglio sulla terra; so di avere una famiglia, di essere stata bambina ed esser pian piano diventata grande, ma purtroppo non ho molti ricordi legati alla mia infanzia; ho una sorta di vuoto cosmico che mina fortemente il mio senso di appartenenza a questo mondo. Mi torna alla mente un solo episodio dell’ultimo anno di asilo (quando cascando all’indietro da una panca mi trovai con le labbra sulle labbra di un bambino col caschetto biondo), e poi soltanto l’incubo sfuocato delle scuole elementari. Però una cosa che ricordo bene c’è: quando tornavo a casa e i cartoni animati finivano, amavo chiudermi al sicuro dentro di me, tra le mura della mia anima, con davanti il quadernino delle mie poesie. Non c’era niente che mi emozionasse di più di una matita con una punta ben fatta e un foglio di carta bianco tutto da riempire. In quei momenti mi sentivo felice, potente, emozionata. Purtroppo, però, quelle poesie riesco a ricordarle solo vagamente: parlavano di luci, di ombre, di sfumature e silenzi. Non ne ho conservata nessuna, perché quando si è piccoli non si ha molta cura delle cose; si ha solo bisogno di prendere il momento, impiastricciarlo e giocarci fino a quando non lo si è stropicciato per bene. Poi tutto ricomincia daccapo.

Un’altra cosa rimasta vivida nella mia memoria, è il momento in cui ho scritto l’ultima poesia.

Era l’estate della prima media. Tra meno di una settimana sarebbe ricominciata la scuola, e avrei dato qualsiasi cosa per spezzare l’ansia del rientro; tutto tranne la sua vita: “Valentina è morta. Era al mare coi genitori, ha avuto un attacco d’asma fortissimo, non aveva con sé le sue medicine e l’ambulanza non ha fatto in tempo a rianimarla”. Sul subito pensai soltanto “che stupido scherzo”, come se il mio cervello di ragazzina non potesse neanche concepire la morte di una persona. Che concetto astratto che era allora per me la morte.

Quando mi resi conto che era tutto dannatamente reale, il massimo che la mia anima destabilizzata riuscì a partorire fu la consapevolezza che non avrei più visto quella splendida bambina bionda al banco in seconda fila ; non avrei più visto i suoi occhi azzurri e sereni che tanto invidiavo, o l’angioma a forma di cuore disegnato sulla sua guancia. La semplificazione estrema di un disagio che ancora non intuivo neanche lontanamente.

Rientrati in classe, i professori chiesero ad ognuno di noi compagni di scrivere una poesia per lei: la più bella sarebbe stata letta durante i suoi funerali.

Io, che ero stata sempre timida e riservata, non volevo che la mia poesia “vincesse”. Non c’era nessuna vittoria da portare a casa da una disgrazia simile. E allora scrissi solo per lei, come se lei fosse ancora seduta a quel banco in seconda fila. Quaranta minuti mi furono sufficienti a versare tutte le lacrime necessarie a sciogliere il groppo che avevo in gola. L’inchiostro blu di qualche parola si era trasformato in una macchia tonda dai bordi frastagliati, ma l’insegnante riuscì comunque a leggere la poesia fino alla fine.

“Bravissima. Una poesia bella ed emozionante che potrà dare voce alla nostra sofferenza, e che ci permetterà di raccontare quanto fosse speciale Valentina per tutti noi. Se te la senti, sarai tu a leggerla in chiesa”.

“Professoressa…preferirei di no.”

“Prof, se è d’accordo la leggo io. Valentina era la mia amica del cuore”

“D’accordo, allora la leggerai tu Daniele”.

Durante i funerali Daniele si incamminò verso l’altare con la testa bassa, il viso affranto ma allo stesso tempo fiero del momento di gloria che avrebbe vissuto di lì a poco. Tutti i partecipanti al funerale piansero senza sosta mentre le parole della mia poesia scorrevano semplici e strazianti come solo la morte di una bimba di 12 anni può essere. Io però, stranamente, non piansi mai. Restai impassibile, in silenzio, covando dentro la fottuta paura che potessero chiamarmi al leggio da un momento all’altro.

D’altronde io avevo già fatto tutto ciò che sentivo di fare: Valentina l’avevo già salutata dal banco in terza fila, lasciando che un pezzetto della mia anima volasse via con lei. Da allora non ho mai più scritto poesie.