
Ma chi voglio prendere in giro? A chi voglio darla a bere?
Io non sono io, e a questo punto non so neanche se lo diventerò mai.
Mi sento a disagio in questa testa, in questa foresta nera che cerca in ogni modo di sabotare la me che ogni tanto sento bisbigliare da dentro, quando i pensieri si fanno più radi; la intravedo laggiù, oltre lo stomaco, dentro alle scarpe.
A volte faccio e dico cose talmente assurde da non credere di essere stata davvero io a dirle o pensarle; certe volte semplicemente guardo il mio corpo muoversi e ascolto la mia lingua emettere suoni inutili, privi di calore.
Però (parolaccia impronunciabile), da qualche parte, non so dove, io sento di essere qualcosa di più di questo frastuono che mi occupa la testa ogni istante. E solo quando canto, quando scrivo, quando sono persa in un abbraccio o quando ascolto attentamente una canzone, quel frastuono perenne riesco a zittirlo per un po’, e solo allora mi sento più leggera. Non so se quel “qualcosa in più” che credo di essere, sia una bella cosa o meno; però (altra imprecazione dettata dall’impotenza del momento) vorrei davvero poterlo toccare con mano. Solo a quel punto potrei dire “no, in effetti non valeva la pena darsi tanto da fare per scoprirlo”, oppure (magari): “caxxo, ma è una figata, perché non me ne sono accorta prima!”.
Il problema è che ci vuole coraggio per farlo, e io quel coraggio non riesco ancora a trovarlo; la paura di deludere me stessa e gli altri mi attanaglia e mi riduce ad un essere spaventato ed ansioso che cerca di guardarsi dentro e di guarire quanto meno le ferite ancora aperte di quando ero bambina.
E poi, se anche quel coraggio io lo trovassi davvero, so che non sarebbe sufficiente. Purtroppo la mia autostima è pressoché inesistente, se pure io continui a ripetermi che alla fin fine quella che ho mi basta e mi avanza, tanto che me ne frega, io campo lo stesso. E più questa fottutissima autostima si fa minuscola e fragile, più il mostro che abita il mio cervello diventa gigante, ingombrante, rabbioso; basta vedere il disastro che combina quando ogni tanto perdo le staffe e ne perdo il controllo. E’ capace di divorare me e chi mi circonda in una frazione di secondo.
E pensare che molto spesso, quando il mostro sta per sabotarmi ancora, io me ne accorgo pure. Però lo lascio fare: resto impietrita ed inerme ad osservarlo, desiderando nel contempo di diventare invisibile, come a dire: “quel mostro non è mio, io non c’entro niente, io sono un ‘altra cosa. Mettetelo in catene e fatene ciò che volete”.
Quando ho a che fare con persone che non conosco e che non mi conoscono, mi capita spesso di tenere lo sguardo basso come facevo a scuola, quando il prof scrutava i banchi col naso per aria, nell’interminabile trepidazione di chi proprio non sa decidere chi chiamare alla lavagna. Non so a voi, ma a me ogni volta qualcosa cascava inavvertitamente nello zaino e per delle mezz’ore proprio non riuscivo più a trovarlo.
Gli sguardi altrui mi mettono molta ansia, perché do per scontato che siano uguali al mio: arroganti, saputelli, critici e cattivi. Il mio, di sguardo, mi rimprovera continuamnte, ricordandomi quanto sono inadeguata, imperfetta, antisociale, cicciottella, sbagliata e tutto il resto.
Riflettendo a lungo su questa difficoltà nell’accettare me stessa (soprattutto al cospetto degli “altri”), mi sono resa conto di quanto spesso io risulti davvero insulsa e senza grinta. Se qualcuno mi parla, in automatico il mio cervello elabora la frase più breve e priva di personalità possibile per far morire sul nascere qualsiasi tipo di contatto o dialogo. Per dare una spiegazione razionale a questo meccanismo infame, sulle prime ho dato la colpa alla timidezza, dando per scontato che il tempo lo avrebbe aggiustato. In seguito ho pensato che forse di contenuti di spessore, dentro a questo corpo ingombrante, ce ne sono davvero pochi. Poi ho capito che è un semplice e stupido meccanismo di difesa che il mio cervello attua contro la paura: la paura di scoprire che dietro a questo computer, dietro a questi occhiali e dietro a queste parole vane, non ci sia davvero niente di più. Ho paura che se dessi agli altri la possibilità di conoscermi più a fondo, ci troverebbero davvero il vuoto cosmico: a quel punto non avrei più scuse, niente altro con cui giustificare i miei reiterati sbagli, la mia costante imperfezione. Il vuoto mi spaventa più del mostro famelico che mi abita la testa da sempre.
Probabilmente, il fatto di restare sul vago con frasi del tipo “oggi fa freddo”, “a lavoro come va?”, da al mio cervello l’illusione di prendere tempo; in questo modo può aggrapparsi sempre alla speranza di poter dimostrare più avanti il proprio spessore, alla faccia di chi mi credeva insulsa.
Che idiota.
Lo so, tutti i manuali di autostima sono contrari alle frasi dolci e amorevoli che mi rivolgo quotidianamente come fossero un mantra: che cretina; avresti potuto pensarci; non sei buona a niente; se continui così non andrai da nessuna parte.
Ma non riesco a farne a meno. E’ così che sono stata cresciuta dalle persone che avrebbero dovuto amarmi e farmi sentire importante, e ripetermi che sono sbagliata mi da la speranza di potermi riscattare con più facilità: partendo dal fondo, la spinta per risalire dovrebbe essere maggiore.
Devo essere sincera: vorrei davvero mettere fine a questo patetico teatrino messo su dal mio cervello infame. Anche perché sono convinta che qualcosa, oltre questa coltre di nebbia, ci sia davvero. E so che c’è perché è lei che a volte prende il mio stomaco e lo stringe forte fino a farmi male, lei che spinge queste lacrime su fino agli occhi passando per la gola, lei che riesce a farsi amare dalla persona speciale che ho accanto, e che probabilmente ogni tanto riesce a vederla e a parlarci.
Prima o poi anche io la scoverò. Troverò il coraggio di farlo. Spero solo di riuscire ad affrontare con serenità quello che troverò, anche se potrebbe non essere speciale come vorrei.
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