Papilloma Virus – The End (per ora)

Nel post Papilloma 2 – La Vendetta raccontavo di aver contratto nuovamente il virus HPV. Anche questa volta, fortunatamente, il ceppo non era dei più cattivi, e probabilmente grazie al vaccino non ha neanche causato lesioni al collo dell’utero. Però è tornata l’ansia della convivenza forzata con un coinquilino affatto ben accetto.

Nel frattempo ho cambiato ginecologa, e ho ricevuto una informazione in più: le lesioni causate dal papilloma virus possono essere curabili, ma il virus in sé resta in circolo (quasi come fosse una specie di herpes). Ecco perché, una volta contratto, può ripresentarsi ad intervalli più o meno regolari.

Nei miei progetti di vita, proprio per l’anno a venire, c’era quello di cercare una gravidanza per allargare la nostra famiglia; non potete immaginare il sollievo che ho provato quando la ginecologa mi ha detto che, con quel tipo di HPV, non ci sarebbero stati problemi di sorta per una gravidanza.

Ad ogni modo, dopo aver scoperto che non presentavo lesioni, la strategia è stata la stessa della prima volta: nuovo controllo dopo un anno per verificare che il virus non fosse più presente.

Per una volta le cose sono andate per il verso giusto perché, quasi allo scadere di un anno dalla positività all’HPV, sono rimasta incinta, e quando al 3° mese di gravidanza ho rifatto il pap-test, quel dannato virus era finalmente sparito!

So che non è finita qui, che negli anni potrà ripresentarsi portando con se il solito carico d’ansia, ma nel frattempo so che sto facendo il massimo per tenerlo sotto controllo: vaccino fatto, e pap-test almeno una volta l’anno.

Invito tutte le donne che ancora non l’hanno fatto ad eseguire il vaccino contro il Papilloma Virus perché potrebbe addirittura salvarci la vita.

Genitori tossici

Una delle cose più importanti che ho imparato a mie spese, è che le persone “tossiche” esistono e non sempre possiamo liberarcene facilmente. Spesso neanche ci accorgiamo quanto siano disfunzionali perché accecati dall’amore che proviamo per loro. È il caso, ad esempio, di fratelli o genitori, di colleghi o amici.

Vorrei precisare che ad essere tossica non è tanto la persona in sé quanto i suoi comportamenti: sono questi ultimi infatti a danneggiarci continuamente, e prendere fisicamente le distanze dalle persone in questione non sempre ci salva completamente da ciò che potrebbero fare.

Mi fanno ridere tutti quei guru che se ne escono con frasi filosofiche del tipo:”ognuno é artefice del proprio destino”, oppure “abbiamo noi la responsabilità di come reagiamo a ciò che gli altri dicono o fanno”. Se solo sapessero. Se solo avessero vissuto certe esperienze terribili sulla loro pelle, sono certa che non parlerebbero così. Certo, un fondo di verità c’è anche nei loro concetti, ma ho spesso l’impressione che non possano essere presi come assunti universali, veri in ogni circostanza.

Altrimenti, che vadano a spiegare a quella bimba di 7 anni che non deve rimanere traumatizzata nel sentire continuamente i genitori che fanno l’amore senza il minimo riguardo per lei che certe cose ancora non le può capire.

Che vadano a spiegare a quella bimba di 13 anni che deve avere stima di se anche se sua madre le ripete continuamente che è una stupida, una cretina, una buona a nulla.

Che vadano a spiegare a quella ragazzina di 15 anni che non deve sentirsi in colpa se la madre le urla che la casa è uno schifo, che deve badare ai fratelli dalla mattina alla e sera e farlo in silenzio, senza lamentarsi, a discapito della sua gioventù, dello studio, delle uscite con gli amici, dei suoi primi amori.

Che vadano a spiegarlo a quella ragazza di 17 anni che è artefice del proprio destino anche quando il padre la prende a calci e schiaffi solo perché è frustrato, o quando sua madre le lancia contro sedie e mestoli solo perché sta provando a ribellarsi ad una vita che non ha scelto; le spieghino che non glielo stanno imponendo a furia di mazzate e sensi di colpa.

Certo che ad ogni situazione è possibile reagire in maniera più o meno costruttiva, ma quando a farti del male sono le persone che più dovrebbero amarti, quelle che dovrebbero spronarti e proteggerti, allora la faccenda si fa molto più complicata a mio avviso.

Tutt’oggi mi sento in colpa per non aver saputo reagire a certe situazioni marce come frutta dimenticata per anni in un cassetto del frigo. Eppure non dovrei. Dovrei piuttosto sentirmi orgogliosa di come ho affrontato certe batoste, di come io sia riuscita a ripulire il sangue colato sul pavimento della cucina per tornare a sorridere ai miei fratelli qualche ora più tardi, di come io sia riuscita a salvarmi chiedendo aiuto ed andando in terapia, pur sapendo che quelle sedie nello studio della psichiatra non attendevano me ma quei genitori troppo ottusi per capire di avere un problema.

Ho paura di diventare a mia volta un pessimo genitore, una pessima madre violenta ed anaffettiva, ma continuo a ripetermi che non andrà cosí, perché ho chiaro ciò che non voglio essere e bado bene di starne alla larga, tipo Harry Potter col cappello parlante:”Non Serpeverde, non Serpeverde”. Eppure la paura non mi lascia mai.

La piastra per boccoli miracolosa?

Anche i maschietti ormai lo sanno: se siamo lisce vogliamo i capelli mossi, se li abbiamo mossi li vogliamo lisci. E d’altronde la nostra bellezza sta anche in questo, nell’essere “dolcemente complicate”.

Io in realtà faccio parte della schiera che sta nel mezzo, di quelle con i capelli “mossi”, crespi, che con l’umidità assumono le sembianze di un cespuglio di cui nessuno si cura ormai da anni.

Quindi qualche anno fa ho acquistato una favolosa piastra della GHD che mi consente di diventare liscia in un quarto d’ora e di non ritrovarmi la stoppa al posto dei capelli.

Se non che, intorno ad Ottobre dello scorso anno, su Instagram hanno iniziato a bombardarmi con i video dimostrativi di una piastra apparentemente portentosa che sembrava avesse il potere di realizzare splendidi boccoli in meno di 5 secondi. Mi sono fiondata sul sito per acquistarla: 120 €. “Questi sono scemi”, ho pensato. Ma quel video continuava a comparire ovunque, e il mio desiderio di avere onde perfette nonostante la mia discutibile manualità stava iniziando a prendere il sopravvento. Fortunatamente, con mio grande sollievo, per via delle feste Natalizie era in corso una promozione su soli 200 pezzi che mi avrebbe permesso di acquistarla alla modica cifra di 35 euro. Se poi fosse una reale promozione o soltanto un escamotage per sbarazzarsi delle piastre invendute, resterà sempre un mistero.

Dopo tre settimane (non pensavo che il viaggio da un posto indefinito dall’Inghilterra richiedesse tanto tempo), la mia piastra nuova fiammante é arrivata!

Devo essere onesta: la prima volta che l’ho provata su una ciocca, giusto per vedere se funzionava, ho avuto la forte tentazione di lanciarla dalla finestra. Ma mi sono trattenuta. La seconda volta è andata meglio, anche se ho capito che un po’ di manualità, a differenza di quanto millantato nel video dimostrativo, era in realtà richiesta.

Il risultato finale non è stato malvagio, ma ho un paio di appunti da fare: la spina della piastra è inglese e, se pur fornita di adattatore, mette sempre un po’ d’ansia usarla. Per chi ha i capelli colorati o sciupati per qualche motivo, non è assolutamente adatta, in quanto fatta di materiali che assolutamente non proteggono il capello dalle alte temperature, piuttosto lo bruciano e lo danneggiano ulteriormente.

Quindi, se avete dei capelli sani e la vostra intenzione é di utilizzare questa piastra 5 volte l’anno, la consiglio; nel caso in cui invece vogliate farne un uso molto più massiccio (es. tre volte a settimana come nel mio caso), vi consiglio di affidarvi a piastre di migliore qualità che non minaccino di distruggere la vostra bella chioma.

Ad ogni modo, giusto per togliervi la curiosità, questo è stato il risultato finale (che comunque, da quanto si evince dalla mia faccia soddisfatta, non mi è affatto dispiaciuto):

La dignità è tua, ma anche un po’ mia.

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Hai lasciato o sei stato lasciato? Ecco alcuni atteggiamenti da evitare per non perdere la propria dignità.

Questo vuole ovviamente essere un post semi-serio su una calamità che affligge molti, sia in prima persona che in qualità di spettatori passivi: la fine di una relazione e le sue conseguenze.

Sì, perché quando qualcuno che conosci lascia o viene lasciato, te ne accorgi subito anche se non te lo ha detto nessuno. E non è sesto senso. Basta essere un assiduo frequentatore di Facebook o Instagram per notare che i post che Michela pubblicava fino a qualche settimana prima hanno subìto una trasmutazione genetica, evidente anche allo sguardo meno attento. Le foto che la ritraevano abbracciata “all’amore della sua vita” e le frasi sdolcinate con l’emoji dagli occhi a cuoricino, sono improvvisamente state sostituite da foto con capezzoli in evidenza (con aforismi del tipo “Ogni volta che lasci decidere il cuore, stai compiendo la più bella follia” nella didascalia) e post che inneggiano alla ritrovata libertà (e alla conseguente ritrovata voglia di fare la conoscenza di nuove “alabarde spaziali”). Se 2 + 2 fa sempre 4, la risposta è scontata: Michela ha lasciato il suo Riccardo e non si cura minimamente di quanto lui possa star male nel vederla così lasciva di fronte agli occhi critici della gente. Se non altro, Riccardo avrà modo di porsi alcune serie domande sulla natura della persona che aveva accanto.

E quindi veniamo a lui, il Riccardo della situazione, quel ragazzone che non parla mai con nessuno e che puoi incontrare soltanto il giovedì sera a calcetto perché lui è uno di quelli che:”i social sono il demonio! Non capisco come la gente possa passarci tutto quel tempo!”. Ma guardalo adesso che è stato lasciato dalla fidanzata: ha aperto contemporaneamente una pagina Facebook e una pagina Instagram. Pubblica foto imbarazzanti che lo ritraggono nello sforzo di sembrare felice, mentre fa cose che fino a qualche settimana prima non avrebbe mai neanche immaginato. A causa del dolore che sta provando, sente di odiare il genere femminile, e ripete come un mantra che d’ora in avanti per lui le donne saranno soltanto premi da collezionare. Crede di apparire spavaldo, giovanile e audace, ma risulta soltanto triste, ridicolo, e insopportabilmente goffo.

Michela e Riccardo stanno dando libero sfogo alla loro natura, oppure stanno soltanto cercando di costruirsi una bolla in cui sentirsi al sicuro dagli sguardi carichi di pietà delle persone che gli stanno intorno. Si stanno lasciando trasportare dai flutti agitati delle loro anime in subbuglio, decisione sacrosanta e assolutamente non discutibile. Il problema è che stanno dando in pasto ai social la loro debolezza (leggerezza), e molto probabilmente se ne vergogneranno moltissimo fra tre mesi o cinque anni.

Il problema resta loro, direte. Fino ad un certo punto, dico io.

Prendiamo ad esempio Michela: il fatto che usi il proprio corpo come mero oggetto “drizzabanane”, a me in quanto donna fa girare non poco le balle. Certo non posso impedirle di fare col suo corpo ciò che crede, ma di sicuro so che quello che a lei sembra un atteggiamento divertente e stimolante, non fa altro che rafforzare il terribile preconcetto secondo il quale una donna non è altro che un ammasso di forme lussuriose, riempite da un’anima porca e viziosa. Quindi, al di là della sua dignità che a mio parere va un po’ a farsi friggere, c’è senza dubbio un messaggio più profondo che va a fomentare proprio quella malsana idea che la società odierna ha delle donne e che fatichiamo così tanto ad estirpare. Il discorso sarebbe ancora lungo, ma eviterò di tediarvi con ulteriori polemiche in merito, mi basta aver reso il concetto.

Anche Riccardo dà decisamente un cattivo esempio; cattivo esempio che, ahimè, peserà sempre molto più di mille buone parole. Lui passerà da coglione, d’accordo, ma ancora una volta saranno le donne ad avere la peggio, passando per le “stronze” della situazione che lasciano senza curarsi del cuore altrui, passando per quelle a cui ci si può indirizzare con termini come “troia” o “puttana”, passando per quelle a cui si può urlare di tutto mentre camminano per strada indossando una minigonna.

Per l’uomo e per la donna, ancora oggi, esistono due pesi e due misure. Sembra assurdo doverlo ribadire nel 2018, eppure la società continua a lanciare segnali del tutto discutibili: la strada è ancora lunga, e ogni minuscolo tassello può essere d’aiuto nella costruzione di un mosaico ben più luminoso e positivo.

Fin dove arriva la mia libertà?

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Vorrei tanto capire dove sta tutta questa “evoluzione” del genere umano di cui tanto sento parlare. Non vorrei cadere nei luoghi comuni degli umarels che parlano di quanto si stesse meglio prima, mentre criticano senza sosta il lavoro degli operai all’interno dei cantieri o lo stile di vita dei giovani d’oggi; ma allo stesso tempo vorrei davvero cercare di comprendere, per evitare di lanciare fiamme dagli occhi e fumo dal naso ogni qual volta mi trovo nella stessa situazione di sempre: mi accade spesso che, camminando per strada, qualche esemplare del genere maschile mi noti e proprio non riesca a fare a meno di buttare lì una parola o due come fosse mangime per le galline, noncurante di dove andrà a cascare, ne’ di cosa io ne possa pensare.  E’ come se quel soggetto si sentisse nel pieno diritto di sputare ciò che gli passa per la testa senza l’accortezza di porre il benché minimo filtro tra il cervello (ammesso che ce ne sia uno) e la lingua.

Sono doverose un paio di premesse:

  1. Non sono una figa da paura, una di quelle alte, slanciate, con gli occhi azzurri e un sedere da urlo.
  2. Specialmente quando so di dover andare in giro da sola (per fare delle commissioni o anche soltanto una semplice passeggiata), sto molto attenta a non indossare capi d’abbigliamento che possano risultare troppo appariscenti, o che scoprano troppo le gambe o il seno.
  3. Quando cammino in mezzo alla gente, tendo a tenere lo sguardo basso per evitare di incrociare troppi sguardi e non rischiare di attirare l’attenzione.

Tutti questi accorgimenti, però, sembrano non servire a molto.

Puntualmente, infatti, trovo l’imbecille di turno che mi lancia contro apprezzamenti (spesso anche di pessimo gusto) assolutamente non richiesti, quasi si sentisse in dovere di farlo.

La cosa che più mi manda in bestia, è che non lo fa guardandoti negli occhi, dopo averti stretto la mano e aver provato a fare la tua conoscenza. No. Lui vigliaccamente butta lì una frase  a bassa voce mentre ti passa di fianco, guardando dritto davanti a se’ o, peggio ancora, voltandosi per rimirarti a pieno, con la stessa bramosia di una persona che prenda una boccata d’aria quando poco prima le era mancato il respiro. Nel caso tu gli rispondessi, potrebbe dirti che non è con te che parlava, mentre sapreste bene entrambe quale sia la verità.

In quel momento non soltanto mi sento trattata alla stregua di un oggetto inanimato e senza sentimenti, ma in più mi sale una rabbia feroce che ogni volta mi porterebbe ad inveire contro questi garbatissimi cavalieri per fargli sapere che i loro apprezzamenti del cavolo se li possono infilare su per il posto in cui non batte il sole, perché io non li voglio.

Ma non è pensabile che io, ogni volta, tenti di spiegare a costoro che quello che fanno non è gentile ne’ educato; non voglio necessariamente farne la missione della mia vita.

Qualcuno in passato, in risposta all’esternazione di quello che io avverto come un problema reale, si è permesso di rispondermi: “che esagerata! Per un complimento poi! E che sarà mai?”

Caro mio, abbiamo per caso lo stesso nome, la stessa faccia e lo stesso vissuto? No. Questo significa che abbiamo anche una diversa sensibilità, e che ciò che per te non è degno di nota, per me può rappresentare una grossa seccatura.

Non voglio dovermi rassegnare ad una situazione che è per me fonte di ansia e che non mi permette di sentirmi libera davvero. Non voglio permettere a certe persone, specialmente se del tutto sconosciute, di urtare la mia sensibilità e lasciare che poi la passino liscia.

Mi è stato detto che “devo lasciarli perdere, farmi scivolare tutto addosso, che è un problema mio e che devo imparare a conviverci”, ma io non ci riesco, perché certe parole, specialmente per il modo in cui vengono dette, mi bruciano addosso come sale su una ferita ancora aperta. Il fatto che certa gente senta di avere tutto il diritto di vomitarmi addosso parole più o meno sconce, mi spaventa, e la paura mi fa sentire in trappola. E il risultato è che non mi piace più andare in giro da sola, perdo la voglia di indossare vestiti che esaltino le mie forme, cammino guardando l’asfalto perdendo così tutto il bello che potrei scorgere intorno a me (ammesso che ce ne sia).

Non so come uscirne, ma voglio farlo. Non è giusto che degli estranei portati al guinzaglio dai loro istinti primordiali decidano dove debba cominciare e finire la mia libertà di essere ciò che sono.

Non so se a qualcuno di voi sia mai capitato di provare sentimenti simili nei confronti di una situazione o di un atteggiamento. Come lo avete affrontato?

 

Non voglio sembrare bella, mi ci voglio sentire.

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“Anna stringe la cintura e più la stringe più le fa male
Sua madre dice “se bella vuoi apparire amore un po’ devi soffrire”
Ma lei in cuor suo sa benissimo quello che deve fare
Io bella non voglio sembrare
Io mi ci voglio sentire”

E’ una citazione tratta dal testo della canzone “La stagione”, dei The Zen Circus. Per chi non li conoscesse, sono un gruppo di Livorno della sfera indipendente che da molti anni tratta tematiche sociali ma anche più personali, con testi molto intensi e sinceri. Vi lascio qui il link alla canzone nel caso siate curiosi di ascoltarla: https://www.youtube.com/watch?v=JeNGfOmQCT8

La prima volta che ho sentito queste parole, ho subito pensato che centrassero in pieno un disagio che è comune a tantissime ragazze e donne di ogni età, me inclusa: fare di tutto per apparire belle ed impeccabili ma senza riuscirci mai, perché gli occhi che non riusciamo ad accontentare sono i nostri. Ci sentiamo incitate dalla società e dagli esempi che questa ci propone di seguire, ci danniamo per somigliare il più possibile a modelle e fashion blogger che hanno fatto dell’apparenza il loro mestiere, ma poi ci guardiamo allo specchio e pensiamo di non aver fatto abbastanza, di non valere niente; e quindi ricominciamo con un nuovo tentativo, una nuova crema, un nuovo taglio di capelli. Ma per quanto proveremo a fare, non ci vedremo mai belle abbastanza, perché noi, belle, non riusciamo proprio a sentirci.

I motivi sono sempre gli stessi: i media che ci bombardano con immagini perfette, photoshoppate – che poi noi lo sappiamo benissimo che di reale in quelle foto non c’è un bel niente, ma il nostro inconscio ha credenze tutte sue che ci spingono a snobbare la ragione – facendoci credere che il nostro valore intrinseco dipenda dal nostro aspetto esteriore (non potrebbero fare altrimenti: i libri di psicologia non vendono quanto le creme antirughe). Aggiungiamoci il senso di inadeguatezza che a volte ereditiamo da una storia familiare travagliata o dalle brutte esperienze della vita, ed ecco servite delle donne insicure e prive di autostima pronte a tutto pur di “apparire” perfette.

Ma se invece di correre dall’estetista, dal parrucchiere e dalla dietista ci fermassimo a riflettere anche solo un momento, ci renderemmo conto che tutto questo affannarsi dietro alla ricerca della perfezione non serve assolutamente a niente, se non a svuotare i nostri portafogli e far calare ulteriormente la nostra autostima.

Ho provato a rispondere a queste due semplici domande, e sono rimasta spiazzata dalla risposta banale che ne scaturisce:

  1. Quanto conta l’aspetto fisico delle persone che amo?
  2. Quante sono le persone che stimo soltanto perché hanno un bell’aspetto fisico?

Non si scelgono gli amici in base al loro aspetto, né amiamo meno nostra madre o il nostro compagno di vita perché non ha un fisico perfetto. Tutt’altro; spesso ci scopriamo segretamente ad impazzire per i loro difetti.

Certo, se ciò a cui si aspira nella vita è calamitare gli sguardi superficiali dei passanti facendosi gridare dietro sequele di apprezzamenti (a volte anche poco carini), allora la strada giusta è presto trovata: è sufficiente spendere tutte le proprie energie per ottenere addominali scolpiti e glutei sodi, e sperperare soldi in continui trattamenti anti cellulite, labbra finte e seni rifatti. So di donne infelici nonostante abbiano quasi raggiunto la perfezione che cercavano, ma non voglio spoilerare niente.

Probabilmente dovremmo semplicemente ficcarci in testa due o tre mantra da ripetere in continuazione per arrivare a convincerci che siamo già belle così come siamo, ma non credo che possa essere una soluzione definitiva. Inoltre, sentirsi dire “sei bella come sei” da donne che troviamo bellissime, non solo non ci aiuta, ma addirittura ci fa sentire sbeffeggiate e derise.

Credo che il punto focale non sia la bellezza, ma la convinzione che questa bellezza sia la bilancia del nostro valore: più siamo attraenti, più valiamo, meno lo siamo, più ci sentiamo insignificanti.  E’ piuttosto il contrario! Il nostro aspetto dovrebbe passare in secondo piano rispetto al mondo che abbiamo dentro e che è immenso (e spesso inesplorato). Conosco persone che hanno fatto dei difetti fisici il proprio punto di forza, persone amate e stimate nonostante la loro apparenza non rasenti neanche minimamente la perfezione tanto acclamata e ricercata dalla società odierna. Che poi, tutto sommato, al loro aspetto chi c’aveva neanche fatto caso?

La mia cellulite

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Ci sono momenti in cui mi ritrovo improvvisamente ad annaspare tra i flutti agitati dei miei pensieri, come una bottiglia che venga trascinata dalle correnti del mare senza possibilità di replica.  Non ricordo mai il tragitto che mi ha condotto fin lì, ed ogni volta fatico enormemente a trovare un’appiglio che mi salvi dal mare in tempesta e mi permetta di tornare a riva. Ma poi alla fine quella via di fuga la trovo sempre, e una volta in salvo rimprovero me stessa per aver perso il controllo: basta un momento di disattenzione, e la trappola è lì che mi attende a braccia aperte, instancabile.

E non mi rimprovero certo per i sogni ad occhi aperti…quelli non li faccio ormai da molto tempo….ma piuttosto per il biasimo ed i sensi di colpa a cui permetto di sopraffarmi, a cui permetto di farmi sentire inutile e sbagliata.

E pensare che tutto succede soltanto per mancanza di attenzione. Sì, è vero, ho molti difetti. Sì, a volte vorrei essere diversa rispetto a quello che sono (ma mai un’altra persona). Sì, spesso desidero di più o soltanto di meglio. Ma tutto questo accade soltanto quando lascio i pensieri liberi di fluire senza una direzione ben precisa. E in mezzo a quelle onde, senza nessuno al comando del timone, io mi perdo senza neanche rendermene conto.

E’ stancante dover sempre stare  sul pezzo, correre in avanti senza mollare mai, essere costantemente forti per non lasciarsi sopraffare dalla pigrizia, dalla malinconia, dalla rabbia o dai ricordi. Probabilmente quello che manca a me è un po’ di tenacia, un po’ di forza di volontà per andare avanti anche quando avrei soltanto voglia di fermarmi davanti ad un acquario silente e guardare l’inutile andirivieni dei pesci con i loro occhi sempre dischiusi verso il niente.

Solo ultimamente mi sono resa conto di quanto gli stimoli esterni che ho ricevuto negli ultimi 30 anni siano stati insulsi e privi di qualsivoglia contenuto. Dannosi perfino.

Per anni mi hanno esortato ad essere più pratica ed incisiva, più disincantata. Mi hanno indotto esigenze che probabilmente non mi sono mai realmente appartenute, come quella di entrare in una taglia 42 (non riuscendoci) o di essere sempre impeccabile e attenta al giudizio altrui.  Mi hanno istigato all’odio nei confronti di altre donne e di me stessa. Mi hanno convinto che non potevo accettarmi per quella che ero, che avevo bisogno di fare la dieta, di comprare il mascara che allungasse le ciglia all’infinito, di spendere centinaia d’euro in creme che cancellassero le mie smagliature e la mia cellulite. Ero persuasa dall’idea di poter diventare un’altra (più spigliata, più amichevole, più simpatica, più sicura di me, più apprezzata), e dall’idea che solo gli altri sapessero cosa fosse giusto per me e cosa invece non lo era.

E io come una cretina ho sempre seguito ogni indicazione, ogni segnale, ogni sentiero, neanche fossi Alice nel Paese delle Meraviglie. Mi ripetevo: “se lo dicono i grandi, allora sarà vero. Se lo dice la televisione, chi sono io per dissentire? Se tutti lo fanno, perché io non dovrei?”

Poi ho capito. Rendere le persone più simili tra loro, rende anche la vita e le relazioni apparentemente più omologate, semplici e prevedibili; e questo a noi umani, spesso codardi ed insicuri, fa molta gola. Siamo tutti terrorizzati dall’idea di essere considerati diversi e sbagliati, fino al punto di rischiare la solitudine.

Eppure, fare ciò che gli altri mi dicevano di fare mi ha condotto soltanto fino ai lidi più solitari che potessi mai pensare di raggiungere. Adattarmi a ciò che pareva essere perfetto per me, mi ha portato soltanto a rapporti superficiali, a conversazioni banali, a perdere interesse di fronte a  donne che parlavano della ritenzione idrica come del male assoluto in terra.

A questo punto della mia vita, ho deciso che cercherò la mia strada senza aspettarmi che sia qualcun altro a dirmi cosa fare. Ho messo in conto che la strada giusta per me possa non esistere. In quel caso, ho qui pronto un rastrello con cui segnare un nuovo sentiero sul quale condurre me e la mia cellulite.

 

Quando l’amore (NON) può tutto.

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“Qualcuno ha detto che nel momento in cui ti soffermi a pensare se ami o meno una persona, hai già la risposta.”

Carlos Ruiz Zafón, dal libro L’Ombra del vento

 

 

Ho letto il ibro ‘L’Ombra del vento’ talmente tanti anni fa che non ne ricordo neanche la trama; però questa frase mi è rimasta impressa sin da allora, probabilmente perché mi ha fatto subito un po’ paura.

Sono stata innamorata della stessa persona per molti anni, tanto da dare per scontato che sarebbe stato per sempre. E quando poi ho inconsciamente iniziato a mettere in dubbio “questo nostro grande amore”, mi sono contemporaneamente scoperta a cercare di affossare ogni dubbio, ogni pensiero, a far finta che tutto andasse bene. Ero terrorizzata dall’incertezza che sentivo crescere nella mia testa, andare giù fino alla gola e bloccarsi lì, senza trovare vie di fuga, senza riuscire a trasformarsi nella domanda:”sono ancora innamorata?”.

Per anni sono andata avanti per inerzia, col prosciutto sugli occhi, tenendomi impegnata con nuove esperienze e nuovi hobby. Ho fatto di tutto per non lasciare terreno fertile a quell’incertezza, ma alla fine ha attecchito, è cresciuta ogni giorno di più, e alla fine quella domanda ho dovuto farla.

La risposta, contrariamente alle mie paure, è stata:”Sì, sono ancora innamorata”. Me lo diceva lo stomaco, che si stringeva ad ogni sguardo, me lo diceva il cuore, che mi faceva sentire bene dentro ad ogni abbraccio. Peccato solo che quegli sguardi e quegli abbracci fossero davvero rari, e fortemente cercati soltanto da me.

È stato deprimente scoprire che l’immenso amore che sentivo di provare, non era sufficiente a salvare quel rapporto. Ed è stato ancora più triste rendersi conto di quante stronzate avevo fatto fino a quel momento in nome dell’amore. È stato disarmante, foglio e penna alla mano, scoprire quante poche ragioni avessi per restare, e quante invece mi spingessero chiaramente ad andar via.

Per amore avevo preso decisioni che mi avevano fatto male, mi ero lasciata plasmare secondo un irreale ideale di donna e fidanzata, avevo violentato la mia essenza pur di rendere felice chi avevo accanto.

Per 29 anni ho sognato la vita da favola, il principe azzurro, il “vissero tutti felici e contenti”; per 29 anni ho difeso la mia convinzione per cui “l’amore tutto può”. Oggi, ho capito che l’amore può tanto, ma non può tutto, e sostenere il contrario, per me, equivale ad illudersi e mentire a se stessi. Per quanto mi riguarda, non ne sento davvero il bisogno.

 

 

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