Le vostre zone erronee – Una lettura illuminante

Mentre mi interrogavo per capire quali fossero le mie reali passioni, quelle che davvero desiderassi coltivare nel prossimo futuro, mi sono resa conto che oltre alla musica, alla lettura e alla scrittura, non avrei potuto fare a meno di continuare ad indagare i misteri  della psiche umana, un po’ per capire me stessa, un po’ per capire (e magari smettere di temere) le persone che mi circondano.

E cercando online qualche testo di psicologia da tenere sul comodino per colmare i tempi morti tra un romanzo rosa e un giallo, mi sono imbattuta in un libro che, con estrema semplicità, mi ha aperto nuove frontiere dell’introspezione, oltre a fornirmi delle interessanti chiavi di lettura sui rapporti interpersonali.

81QwdX0WAsLIl libro “LE VOSTRE ZONE ERRONEE – Guida all’indipendenza dello spirito” dello psicologo e scrittore Wayne W.Dyer, tratta essenzialmente le fragilità umane riscontrabili nella stragrande maggioranza delle persone, e non solo ne spiega le origini e i risvolti nella vita di ogni giorno, ma regala anche qualche prezioso consiglio per aiutarci a migliorare lasciandoci queste “zone erronee” alle spalle.

Era tanto che aspettavo una lettura di questo tipo, e il fatto di essermici imbattuta per caso in un momento di forte fragilità, mi ha davvero impressionata. Non si tratta di uno di quei libri mirati a venderti l’illusione della felicità e a propinarti frasi motivazionali che, senza una buona base di comprensione, lasciano un po’ il tempo che trovano. Gli 8,50 € meglio spesi delle ultime settimane! Ne consiglio la lettura a chiunque si trovasse in un momento di smarrimento, ma anche a chi volesse capire meglio i meccanismi (spesso inconsci) che portano l’essere umano a reagire e comportarsi in un determinato modo e sfruttare queste nuove conoscenze per fare un percorso di crescita personale.

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Dyer comincia il suo saggio (tra l’altro pensato e scritto per persone assolutamente digiune di psicologia e termini medici specifici) con l’ammissione che “cambiare costa fatica“. È questo uno dei principali motivi che ci spinge all’inerzia, a perseverare nei nostri comportamenti “erronei”. E badate bene: con “erronei”non intende comportamenti “sbagliati” e disapprovati dalla società, tutt’altro! Nella maggior parte dei casi qui si parla di comportamenti che la società non solo approva, ma addirittura incoraggia, ma che sono estremamente dannosi per noi stessi sotto tutti i punti di vista: per la nostra parte razionale, per quella emozionale e, nei casi più spinti, per il nostro stato di salute. Non si tratta di “aggiustare qualcosa di rotto”, ma bensì di comprendere e addirittura crescere se lo si vuole.

Potrebbe sembrare assurdo, ma se ci pensiamo bene nella quotidianità ci sentiamo spesso molto più sicuri ad attenerci ad un modo di reagire che conosciamo, benché autodistruttivo, piuttosto che a cambiare le nostre abitudini. Quali saranno mai queste abitudini autodistruttive che non riusciamo a cambiare? Non siamo mica degli automi senza cervello che continuano a perseverare in qualcosa che ci fa del male? In effetti no, non siamo degli automi, ma ciò non toglie che, senza esserne davvero consapevoli, spesso ci comportiamo come se lo fossimo. Chi, ad esempio, può dirsi privo di rimpianti, di ansie, di preoccupazioni, di desideri che forse non si realizzeranno mai? Se non tutti, quanto meno la maggior parte di noi. Questo prova che qualcosa nei nostri meccanismi profondi non funziona come sarebbe naturale che funzionasse.

Dyer spiega che qualsiasi comportamento autodistruttivo che mettiamo in atto, è un modo per evitare il presente, l’adesso. Eppure non ha senso, visto che il presente è l’unico momento in cui possiamo fare esperienza. A cosa serve rimuginare continuamente sulle esperienze passate o su quelle future? La domanda è ovviamente retorica.

La vita è nostra, e dovremmo farla così come noi la vogliamo. Ma spesso non sappiamo neanche cosa vorremmo davvero, e allora potrebbe essere davvero arrivato il momento di scendere nel profondo per comprenderne i motivi e abbracciare nuovi processi mentali che ci consentano di dirigere noi stessi esattamente lì dove vogliamo. Ovviamente non è semplicissimo dal momento che veramente tantissime forze cospirano contro la responsabilità individuale, ma ciò non significa che con le conoscenze giuste e un po’ di impegno sia impossibile.

Tendenzialmente le nostre giornate sono fatte di passaggi tra un determinato stato d’animo e un altro: un momento ti senti sereno, quello dopo qualcosa ti turba e ti arrabbi, poi ti senti ansioso per qualcosa che dovrà accadere, e non poterlo comandare ti fa sentire frustrato. Eppure è possibile controllare tutti questi stati d’animo. Il sillogismo che usa Dyer è molto semplice:

Io posso controllare i miei pensieri

I miei stati d’animo discendono dai miei pensieri

Posso controllare i miei stati d’animo

Ogni emozione non è altro che la reazione fisica ad un pensiero, ed è proprio sui pensieri che dovremmo agire per cambiare noi stessi e la nostra vita. E quando possiamo farlo? Soltanto adesso, nel momento in cui ogni cosa accade. Non possiamo cambiare i nostri pensieri di ieri, eppure quella di non tenere in considerazione il presente è una vera e propria malattia della nostra cultura: ciascuno di noi, infatti, viene continuamente condizionato a sacrificarla per il futuro. La felicità, sempre rimandata all’indomani, ci sfugge. Vi è mai capitato di dire a voi stessi:”Quando mi sposerò/quando sarò più magra/quando mi sarò laureato/quando avrò un figlio/quando guadagnerò di più la mia vita cambierà”. Poi quell’evento si verifica, e restiamo delusi perché capiamo di averlo idealizzato, e che niente è realmente cambiato. Ciò significa che non dovremmo lasciare che le circostanze pilotino la nostra vita: se vogliamo qualcosa, dobbiamo agire per ottenerla, senza aspettare che circostanze esterne lo facciano per noi….anche perché potete star certi che non avverrà.

Spesso restiamo immobili per il timore di sbagliare, ma se ci lasciamo paralizzare dalla paura non cambieremo mai, e di conseguenza anche la nostra vita resterà tale e quale.

Fra i comportamenti “immobilizzanti” che non ci permettono di crescere e cambiare, c’è sicuramente l’approccio “erroneo” all’amore verso noi stessi e gli altri, accompagnato dal comune errore di confondere il proprio valore con il proprio comportamento: siamo soliti pensare che quel tale sia “cattivo”, anziché pensare semplicemente “si è comportato male”; e così ragioniamo anche per noi stessi. Quando non siamo capaci di fare qualcosa, sentiamo di valere poco “in generale”, senza riflettere sul fatto che se non siamo riusciamo in qualcosa, potrebbe essere semplicemente perché non ci siamo “allenati” abbastanza: le nostre capacità non sono scritte nei nostri geni, ma sono piuttosto il frutto di scelte che abbiamo compiuto in passato. Se ad esempio in età adulta siete delle schiappe nella corsa o nel gioco del golf, questo non fa di voi delle persone che valgono meno rispetto a quelle che invece in questi campi vanno forte: semplicemente, in passato, avrete ritenuto di dedicare il vostro tempo e i vostri sforzi ad altre attività. Che quelle decisioni si siano rivelate “sbagliate” per voi (e solo voi e nessun altro può dirlo), l’unica alternativa che avete è lavorare per cambiare il presente, visto che tanto per il passato non potete più fare niente. D’altronde niente e nessuno potrà mai darvi la garanzia che una decisione dia i risultati che speravate, tanto vale provare e, nel caso in cui il risultato non ci soddisfi, cambiare e provare una nuova strada.

E se a limitarci fossero degli aspetti di noi stessi che consideriamo “sbagliati”? Be’, a questo punto è necessario capire se si tratta di aspetti che possono essere modificati (ad es. qualcosa che consideriamo un difetto caratteriale), o meno (ad es. la lunghezza delle nostre gambe); nel secondo caso, dobbiamo lavorare per imparare ad accettare noi stessi, tenendo sempre ben presente che l’amore per sé stessi non esige l’amore e l’opinione altrui.

Ma che senso ha scegliere per noi stessi questi comportamenti autodistruttivi? Principalmente perché abbassare il nostro valore e metterci al di sotto degli altri, ci evita molti rischi. Così facendo, possiamo ricevere compassione e attenzione, con lo svantaggio di dare contemporaneamente agli altri un potere sterminato sulla nostra vita. Aver bisogno di essere approvati, è un po’ come dire “Vale più il tuo pensiero su di me, che l’opinione che ho di me stesso”. In questo modo saremo tutto ciò che gli altri vogliono che noi siamo, a discapito della nostra vera personalità. D’altronde secondo la nostra cultura è sempre meglio consultare gli altri che fidarsi di se stessi. Non a caso l’approvazione viene usata come potente strumento di manipolazione: l’indipendenza e l’auto-approvazione allontanano dal controllo altrui, ma vengono definiti comportamenti egocentrici ed irriguardosi. E ciò è così da sempre: fin da quando siamo bambini ci insegnano a chiedere prima ai genitori (che trattano i figli come fossero un loro possesso), ci spingono a non pensare con la nostra testa e a stare al nostro posto (soprattutto a scuola), e la religione non aiuta di certo: devi piuttosto comportarti in un certo modo per ottenere l’approvazione del tuo Dio, altrimenti ciò che ti spetta sono punizioni e dannazione eterna.

La ricerca dell’approvazione altrui è altresì nociva perché tendiamo generalmente ad assimilare il rifiuto di una nostra idea, al rifiuto di tutti noi stessi. Ma dobbiamo imparare a convivere col fatto che esisterà sempre qualcuno che ci disapproverà. Tutto sommato, ci va bene anche così, e preferiamo affidarci all’approvazione altrui per poi avere la possibilità di addossargli la colpa dei nostri stati d’animo, senza pensare che la conseguenza di questo comportamento è che non cambieremo mai.

La strada giusta da percorrere è quella di esercitarsi ad ignorare la disapprovazione, e Dyer ci da’ qua e là qualche escamotage da mettere in pratica per perseguire questo obiettivo:

  • Smettere di stare sulla difensiva accampando scuse o cercando di difendersi
  • Ringraziare l’altro per la sua opinione e dirgli che continuiamo ad essere convinti di ciò che pensiamo
  • Smettere di voler convincere l’interlocutore a tutti i costi della giustezza della nostra posizione
  • Cominciare a fidarsi un po’ di più di noi stessi e delle nostre decisioni (se fatte con criterio, e non prese per ansia o paura).

Questa è soltanto un’infarinatura generale e affatto esaustiva del libro di Dyer (che ovviamente vi invito a leggere), ma mi piacerebbe comunque approfondire determinati aspetti per darmi e darvi ulteriori spunti di riflessione che in un modo fortemente omologato come quello di oggi sono merce rara.

Quindi prossimamente mi impegno a pubblicare alcuni post che scendano nel dettaglio di ciascuna “zona erronea” per cercare di comprenderla a pieno e condividere con voi gli strumenti per potersene liberare. Stay tuned 😉

– II parte – Liberarsi del passato

Tu sei il risultato di tutte le immagini che hai dipinto di te stesso […] e ne puoi sempre dipingere di nuove.

Le 5 ferite emotive: come guarirle

E’ interessante capire da dove vengono determinati comportamenti e modi di pensare che credevamo solo nostri, e scoprire che invece abbiamo molti tratti comuni a chi indossa le nostre stesse maschere per le nostre stesse ferite.

Una volta appurato che qualche ferita, anche se piccola, ce la portiamo dentro tutti, il passo successivo è capire come guarire da queste ferite.

Nel suo libro “Le 5 ferite e come guarirle”, l’autrice Lise Bourbeau da’ qualche indicazione di massima che vi vado subito a riassumere.

La prima tappa per guarire una ferita consiste nel riconoscerla e nell’accettarla. Accettare significa guardarla, osservarla, sapendo che il fatto di avere ancora qualcosa da risolvere fa parte dell’esperienza dell’essere umano. Nessuna trasformazione è possibile senza accettazione. Nel caso in cui  ancora non siamo stati capaci di riconoscere le ferite che ci hanno fatto (e tutt’ora ci fanno) soffrire, ci basterà far caso a ciò che non accettiamo negli altri: corriponderà esattamente a quelle parti di noi che non vogliamo vedere per paura di doverlo ammettere e guarire.

L’ego fa tutto il possibile per non farci rivivere le nostre ferite, perchè teme che non saremo in grado di gestire il dolore che ne deriverà. D’altronde è stato proprio l’ego a convincerci a creare le maschere allo scopo di evitarci la sofferenza. L’ego crede sempre di prendere la strada più facile, ma in realtà ci complica la vita, e più aspettiamo a risolvere le ferite, più queste si aggraveranno e più avremo paura di toccarle, dando vita ad un circolo vizioso che solo noi potremo interrompere con la consapevolezza e l’accettazione. Dobbiamo prendere coscienza del fatto che tutti comportamenti associati a una data maschera, sono soltanto delle reazioni legate alla “difesa”, e non hanno niente a che fare con l’amore per noi stessi e al comportamento che sarebbe in realtà più giusto adottare per il nostro benessere.

La seconda tappa consiste nell’accettare la nostra responsabilità, smettendo di accusare gli altri per le nostre sofferenze.

Un altro modo per capire a fondo le ferite che ci portiamo dentro, consiste nell’interrogarsi sul rapporto che abbiamo con gli altri: più queste ferite fanno male, più proveremo risentimento per il genitore che riteniamo responsabile di avercele imposte; dunque, in seguito, trasferiremo l’odio e il reancore sulle persone dello stesso sesso del genitore accusato di averci fatto del male. La Bourbeau spiega infatti che le ferite non potranno guarire se non in presenza di un vero perdono nei confronti di noi stessi e dei nostri genitori.

Questa terza tappa si basa sull’idea che al mondo non ci sono cattivi, ma soltanto persone sofferenti, e i nostri genitori fanno parte di queste. Non si tratta qui di scusarli, ma di imparare ad avere compassione per loro. D’altronde non sarà condannandoli o accusandoli che li aiuteremo; possiamo avere compassione per lor anche se non siamo d’accordo con quello che fanno grazie alla consapevolezza delle ferite nostre e altrui.

Non si tratta di un percorso semplice, ne’ tanto meno rapido, ma ci accorgeremo di essere ad un buon punto della nostra guarigione quando inizieremo a dirci: “ecco ho indossato questa maschera, ed è per questa ragione che ho reagito in questo modo”.

E’ essenziale capire che la fonte del nostro benessere sta in ciò che siamo e facciamo, e non nei complimenti, nella gratitudine, nei riconoscimenti e nel sostegno che ci vengono dall’esterno: l’autonomia affettiva è la capacità di sapere ciò che vogliamo e di fare le azioni necessarie per concretizzarlo, e quando abbiamo bisogno di aiuto sappiamo chiederlo senza troppi problemi.

Per velocizzare questo processo di guarigione, è fondamentale smettere di alimentare le proprie ferite per quanto possibile: bisogna smettere di darsi degli incompetenti, dei buoni a nulla, degli inutili, e soprattutto smettere di fuggire dalle situazioni che ci fanno paura. E’ essenziale provare ad affrontarle e capire quanto le nostre reazioni siano dettate dalle maschere che indossiamo. A quel punto dovremo perdonarci, e concederci di aver potuto usare una maschera, sapendo che in quel momento credevevamo davvero che fosse l’unico modo per proteggerci.

La quarta tappa, infine, sarà quella in cui torneremo ad essere noi stessi, in cui sentiremo di non avere più bisogno di indossare delle maschere che ci proteggano. Questo non è altro che un modo per descrivere l’AMORE PER SE STESSI. Amarci è concederci talvolta di ferire gli altri rifiutandoli, abbandonandoli, umiliandoli, tradendoli o essendo ingiusti con loro, sebbene non lo facciamo di proposito. Questa è la più importante delle tappe per guarire le nostre ferite. D’altronde scopriremo che più ci consentiremo di tradire, rifiutare, abbandonare, umiliare ed essere ingiusti, meno lo faremo. Concedendo a noi stessi di fare agli altri ciò che temiamo di vivere (al punto da aver creato una o più maschere per proteggerci), ci sarà molto più facile concedere anche agli altri di agire nell’identico modo e di avere, a volte, dei comportamenti che risvegliano le nostre ferite.

 Come consiglio pratico, la scrittrice consiglia di fare un bilancio alla fine di ogni giornata, in cui ci si domanda quali maschere abbiano preso il sopravvento inducendoci a reagire in un determinato modo, sia nei confronti degli altri che di noi stessi.

Il ibro si conclude con la poesia dello svedese Hjalmar Söderberg:

Tutti vogliamo essere amati,

se questo non accade, essere ammirati,

se questo non accade, essere temuti,

se questo non accade essere odiati e disprezzati.

Vogliamo risvegliare un’emozione nell’altro, quale che sia.

L’anima rabbrividisce davanti al vuoto e cerca il contatto a qualsiasi prezzo.

 

Approfondiamo la ferita da abbandono e la maschera del dipendente

Vi è mai capitato, durante una conversazione, di bloccarvi improvvisamente (per rabbia o delusione) quando vi siete accorti che il vostro interlocutore buttava l’occhio all’orologio proprio mentre voi stavate parlando? Per caso in passato siete stati dei bambini deboli e cagionevoli? Siete miopi? Oppure ancora: odiate mangiare da soli e non vi sognate neanche di lasciare qualcosa nel piatto? Se una o più di queste situazioni vi sono familiari, potreste soffrire della ferita da abbandono.

E’ tra il primo ed il terzo anno di età che il bambino vive la ferita da abbandono con il genitore del sesso opposto. Non è raro che ci soffre di abbandono, soffra anche per il rifiuto: un bambino può sentirsi rifiutato dal genitore dello stesso sesso, e abbandonato da quello di sesso opposto che (secondo lui) avrebbe dovuto impedire all’altro genitore di rifiutarlo. Un po’ un cane che si morde la coda a leggerlo così: ma quando siamo piccolissimi, non abbiamo riferimenti e punti saldi che ci consentano di razionalizzare ciò che succede intorno a noi, e quindi mano a mano ci costruiamo una maschera che ci aiuti ad alleggerire la sofferenze che proviamo: in questo caso, la maschera del dipendente. Quella da abbandono è una ferita che dovremmo cercare di guarire al più presto, perché finché continueremo a soffrirne e ad essere in collera (inconsciamente o meno) con uno dei nostri genitori, le relazioni con le persone dello stesso sesso di quel genitore saranno complicate anche in età adulta.

Ma di cosa soffre un dipendente? Del non sentirsi “nutrito” dal punto di vista affettivo. Questa mancanza, paradossalmente, si riflette spesso nell’ostentazione di un apparente sicurezza: chirurgia estetica e sviluppo eccessivo dei muscoli attraverso il body-bulding sono i mezzi più utilizzati. Ma più semplicemente, in ogni situazione in cui cerchiamo di nascondere il nostro corpo agli altri, stiamo in realtà cercando di nasconderlo a noi stessi, insieme alle ferite che esso riflette.

Il dipendente lo si può riconoscere spesso nei panni di “salvatore”; non è inusuale che si comporti da genitore nei confronti dei fratelli, o che cerchi in tutti i modi di salvare dalle difficoltà la persona che ama; in ogni caso cerca di farsi carico di responsabilità che non sono sue, e questo gli provoca spesso forti mal di schiena.

Altra caratteristica del dipendente, sono gli “alti e bassi”: per un periodo è felice e spensierato, poi improvvisamente si sente triste e abbattuto; il fatto che non ci sia una causa scatenante lo porta a riflettere (il che non vuol dire che arrivi alla risposta che sta cercando). Potrebbe essere forse la paura della solitudine la spiegazione dei suoi crolli? Di certo, il dipendente avverte più di qualunque altra maschera il senso profondo della tristezza, senza poter minimamente indovinare da dove essa scaturisca. Cercare la presenza degli altri può aiutarlo a ricacciarla, così come abbandonare la persona o la situazione che (secondo lui), è causa di questa tristezza.

Ciò che più anela, è il sostegno, l’approvazione altrui. Spesso può passare per uno che ha difficoltà a prendere decisioni, ma in realtà se dubita della propria scelta è perché ha paura di non trovare il consenso degli altri.

Coloro che soffrono della ferita da abbandono, sono spesso in conflitto con se stessi perché, se da un lato vorrebbero molte attenzioni, dall’altro temono che chiedendone troppe possano disturbare ed essere per questo definitivamente abbandonati. La stessa cosa succede quando sono in coppia: molto spesso preferiscono credere che tutto vada a gonfie vele solo per la paura di essere abbandonati, o addirittura lasciare per non essere lasciati (sembra assurdo vero?).

Il “brutto vizio” di chi soffre di abbandono, è credere che comportandosi in modo sempre carino e gentile con gli altri, anche gli altri si comporteranno di conseguenza, cercando di non risultare freddi o autoritari nei suoi confronti. Ma mai credenza fu più sbagliata, e ogni atteggiamento “brusco” che inevitabilmente gli si presenta davanti, fa scoppiare il lacrime il dipendente. Tra i pro, c’è sicuramente la forte empatia che riesce a provare nei confronti degli altri; ma anche questa può diventare un arma a doppio taglio quando si lascia invadere del tutto dalle emozioni altrui.

Chi soffre di ferita da abbandono potrebbe soffrire anche di agorafobia: spesso definita “fobia degli spazi aperti e della folla” (anche un supermercato rientra in questa definizione). Gli agorafobici hanno il timore del giudizio degli altri in relazione allo stare male in pubblico, oppure temono di stare male in situazioni o luoghi in cui non potrebbero essere soccorsi o da cui non possono fuggire; di conseguenza, si attivano meccanismi di evitamento delle situazioni ansiogene al fine di escludere la possibilità dell’insorgenza del panico.

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Chi soffre di questa ferita, può avere un corpo allungato, sottile, ipotonico, floscio, con gambe deboli e schiena curva, nonché occhi grandi e tristi. Potrebbe soffrire anche di bulimia.

Ovviamente, a seconda dell’intensità della ferita che ci portiamo dentro, tutte le caratteristiche fisiche e comportamentali descritte fino ad ora potrebbero presentarsi in maniera più o meno evidente. Infatti, oltre ad osservare il nostro fisico e i nostri atteggiamenti, dovremmo fare molta attenzione a ciò che ci disturba: molto spesso rimproveriamo agli altri tutto ciò che noi stessi facciamo e non vogliamo vedere.

(Qui il primo post sulla ferita da abbandono).

Le 5 ferite emozionali: perché si generano le maschere?

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Ho già parlato sinteticamente delle 5 ferite e delle relative 5 maschere, ma l’ho fatto in maniera abbastanza superficiale, mettendo insieme le informazioni trovate qua e là su forum e articoli di psicologia. Visto che l’argomento mi ha incuriosito, ho deciso di andare più a fondo e di leggere il libro che sta alla base di questa teoria: “Le 5 ferite e come guarirle”, di Lise Bourbeau.

Il libro parte dall’origine delle ferite e delle rispettive maschere, e si conclude con qualche indicazione di massima che possa aiutarci a comprenderle meglio e, nel migliore dei casi, a curarle.

Ho trovato la lettura scorrevole ed interessante, se pure mi abbia fatto storcere il naso in un paio di punti. Quindi, tralasciando l’idea della scrittrice secondo la quale l’anima si reincarnerebbe ogni volta in un nuovo corpo fino alla completa risoluzione delle proprie ferite, direi che per il resto le sue teorie, dedotte da anni di studi e sedute pratiche, trovano un buon fondamento nella realtà, tanto che io per prima mi sono riconosciuta nelle maschere che descrive.

Mi ha turbata la teoria secondo la quale l’essere umano continuerebbe ad attrarre a sé circostanze e persone che gli fanno rivivere continuamente le proprie ferite più profonde: non perché la trovi infondata, tutt’altro. Pensando alla mia esperienza personale, mi sono resa conto che fino a che non sono arrivata ad elaborare profondamente certe mie paure, per quanto io provassi a rifuggirle queste mi si materializzavano davanti continuamente. Per alcune di esse, in seguito ad esperienze significative e ad una presa di coscienza importante, sono riuscita ad interrompere il circolo vizioso e questo mi ha permesso di potermi concentrare su nuovi aspetti della mia crescita personale.

Partendo dall’assunzione di questo principio, mi sono chiesta come mai, pur possedendo un’intelligenza emotiva nella media, ci servano delle batoste davvero considerevoli prima di arrivare a comprendere determinate cose. La risposta della Bourbeau è che la “colpa” è del nostro ego, che a sua volta è alimentato dalle nostre credenze. L’ego non vuole ammettere che tutte le esperienze sgradevoli che viviamo hanno l’unico scopo di mostrarci le nostre ferite, ma non lo fa per cattiveria: è piuttosto una sorta di difesa, la stessa che ci ha portato a creare le maschere che portiamo al fine di proteggerci fin da quando eravamo bambini e ancora non avevamo armi a disposizione per difenderci in altro modo.

Ma da cosa ha dovuto difenderci l’ego? Non tutti i bambini (per fortuna) vivono esperienze particolarmente traumatiche nei primi anni di età: pare che in ogni caso pare ogni bambino passi comunque attraverso queste 4 fasi:

– 1° tappa: la tappa dell’esistenza, in cui il bambino scopre la gioia di essere sé stesso;

– 2° tappa: il bambino scopre il dolore di non poter essere sé stesso (lo capisce dai continui rimproveri che riceve dagli adulti)

– 3° tappa: è il periodo della ribellione, in cui il bambino cerca di opporsi alle regole;

– 4° tappa: per ridurre il dolore che sente, il bambino si rassegna e finisce per crearsi una nuova personalità, in modo da diventare ciò che gli altri vogliono che sia.

È quindi in queste ultime due fasi che l’ego, per difendersi dal dolore, dà vita alle nostre maschere, che come abbiamo anticipato sono 5 e corrispondono a 5 grandi ferite.

Ma come si fa a capire di quale ferita soffriamo maggiormente?

La scrittrice invita costantemente a focalizzarsi sul proprio aspetto fisico perchè sarebbe proprio quello a dare le maggiori indicazioni in questo senso. Leggendo le caratteristiche di ogni ferita e della relativa maschera, potremmo essere influenzati dalle nostre stesse credenze e lasciarci portare fuori strada: quindi dovremmo ossservare attentamente ciò che il nostro fisico ci rivela; potremmo scoprire di soffrire di una ferita emotiva che razionalmente credevamo molto lontana dal nostro sentire.

Durante questa ricerca, è importante ricordare sempre che nessuno di noi presenta TUTTE le caratteristiche relative ad una ferita e alla sua maschera: a seconda della profondità della ferita, ci ritroveremo in una o più caratterisitche. Non è raro che una persona celi in sè più di una ferita, e che possa quindi aver elaborato più maschere da utilizzare di volta in volta a seconda della ferita che riapre. Sì perchè la colpa non è degli altri: è il nostro modo di reagire agli eventi della vita a riaccendere il dolore delle nostre ferite; non tutti infatti reagiamo allo stesso modo di fronte alla stessa situazione.

Un buon modo per capire se siamo affetti da una determinata ferita, è far caso a ciò che gli altri fanno e che ci disturba:

“Rimproveriamo agli altri tutto ciò che facciamo a noi stessi e che non vogliamo vedere”.

Nei prossimi giorni, per chi fosse interessato, approfondirò nel dettaglio le sfaccettature di ogni maschera. A presto 😉

La ferita da rifiuto e la maschera del fuggitivo

Nell’ultimo post “E tu che maschera indossi?” ho parlato delle 5 ferite principali che spesso e volentieri condizionano la nostra vita adulta, pur risalendo al periodo in cui eravamo soltanto dei bambini.

Quindi comincerei a scendere nel dettaglio per capire come riconoscere, una ad una, queste ferite e quali sono le caratteristiche delle rispettive “maschere” attuate dal bambino come autodifesa.

La Ferita da Rifiuto

Per trovare l’origine di questa ferita, dovremmo scavare in un passato talmente remoto da andare contro le leggi della psicologia; infatti la si potrebbe individuare soltanto se riuscissimo a ricordare il periodo che va dalla nostra nascita al primo anno di età.

La maschera relativa a questo tipo di ferita è quella del fuggitivo, e viene in automatico attivata da quei bambini che, per un motivo o per un altro, di sono sentiti rifiutati dai proprio genitori (in special mondo da quelli dello stesso sesso e da cui tendono quindi a scappare per paura di essere colti dal panico e sentirsi impotenti).

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Spesso chi indossa questa maschera ha un corpo contratto, piccolo, una voce debole e spenta, e negli occhi un’espressione di paura. Avverte se stesso come una nullità, un incompreso senza valore, e per questo non crede di aver diritto ad esistere. Non è un caso che cerchi spesso la solitudine e ogni modo possibile per fuggire dalle situazioni.

Ha un carattere distaccato rispetto alle cose materiali, è un perfezionista, un intellettuale e passa attraverso fasi di grande amore alternate a odio profondo.

Le persone che indossano la maschera del fuggitivo possono soffrire di attacchi di panico e mancanza di appetito; non è raro infatti che si rifugino negli “zuccheri”, o che nei casi peggiori cadano del baratro dell’anoressia, dell’alcool e delle droghe.

Sembrano comunemente riscontrate, nelle persone con la ferita del rifiuto, le seguenti patologie: diarrea, aritmia, problemi respiratori, allergie, vomito, svenimenti, ipoglicemia, diabete, psicosi e finanche periodi di depressione con intenti suicidi.

I “fuggitivi” tendono a chiudersi in se stessi per evitare di fare o dire qualsiasi cosa possa farli sentire ulteriormente respinti dagli altri: è il classico comportamento di chi non ha stima di sé e, consciamente o meno, sente di non essere così importate da avere il diritto di vivere. Non è un caso che un “fuggitivo” ripeta continuamente a sé stesso di essere inutile, incompetente e buono a nulla, convinto che le cose funzionino meglio senza di lui.

Non esiste una formula magica per guarire la ferita del rifiuto, così come ogni altra ferita, ma già prenderne atto può aiutarci a capire la nostra natura e il perché di certi nostri atteggiamenti.

Quando si può ritenere guarita la ferita da rifiuto? Semplicemente quando la persona in questione prende consapevolmente il proprio posto nel mondo, affermando sè stesso ai propri occhi e a quelli di chi gli sta intorno.

Approfondiamo la ferita da rifiuto e la maschera del fuggitivo.

Clicca qui per scoprire le 5 ferite e le relative 5 maschere

E tu che maschera indossi?

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Si fa tanto parlare di autostima, di come accrescerla e rafforzarla, di quali siano le strategie, i trucchi e le pseudo-magie che dovrebbero, finalmente, farci sentire sicuri ed in armonia con noi stessi e con il mondo circostante.

Non so se anche a voi è capitato di provarci e quali siano stati poi i risultati: per quanto mi riguarda, i miei tentativi sono miseramente falliti.

Poi qualche giorno fa, per puro caso, mi sono imbattuta in qualcosa che mi ha regalato un nuovo punto di vista da cui ripartire.

Un’amica mi ha chiesto la cortesia di acquistare un libro su Amazon per suo conto; una volta messo nel carrello, è comparso il seguente avviso: “con l’acquisto di questo libro, la spedizione è gratuita se raggiungi la cifra di 25,00 euro”. Mi sono accorta che effettivamente mancavano pochi euro, quindi ho pensato di approfittarne per comprare un libricino per me. Tra i libri suggeriti (in base alle ultime letture acquistate e alle tendenze del momento), compariva il libro “Le 5 ferite e come guarirle” di Lise Bourbeau. Ho letto le recensioni degli utenti che lo avevano acquistato, e il responso era più o meno sempre quello:” offre spunti di riflessione molto interessanti, adatto a chi ha intrapreso un percorso di crescita interiore, ma non fornisce alcuna soluzione”. Quindi, incuriosita, ho cominciato a girovagare per il web in cerca di qualche informazione in più, e ho trovato migliaia di riferimenti a queste 5 fantomatiche ferite.

Il succo è questo: molti di noi, in età infantile, hanno subito dei “torti”, se così vogliamo chiamarli, ricavandone in seguito ferite emotive molto profonde che non sono riusciti a sanare. Queste ferite sono state procurate in modo inconsapevole (si spera) dai nostri genitori o da persone a noi molto vicine, probabilmente perché loro stessi sono stati oggetto di questa dinamica in tenera età (ma non avendola individuata e “curata”, l’hanno riproposta automaticamente senza saperlo).

Nel momento in cui la ferita è stata inferta, il bambino ha attuato un meccanismo di difesa: la maschera, che è appunto la risposta che il bambino ha trovato a suo tempo per sopravvivere nel modo migliore alla ferita.

Secondo la psicoanalisi, si possono distinguere 5 ferite principali, con le rispettive 5 maschere:

  1. la ferita del rifiuto e la corrispettiva maschera da fuggitivo
  2. la ferita da abbandono e la maschera da dipendente
  3. la ferita dell’umiliazione con la corrispondente maschera da masochista
  4. la ferita del tradimento e la maschera del controllo
  5. la ferita dell’ingiustizia e la maschera del rigido.

La maschera dà vita ad un vero e proprio personaggio, con modi di pensare, di parlare, di muoversi, di respirare, ecc. Pare infatti che si possa fare una diagnosi approssimativa di una persona basandosi sull’osservazione di tutte queste variabili: pare sia possibile scoprire quale sia la nostra ferita “prevalente” (in ogni persona possono esserci più ferite aperte) anche soltanto osservando la nostra “forma” fisica.

Nei prossimi giorni posterò, uno per volta, i profili relativi alle 5 ferite: non sarà certamente la risposta a tutti i dubbi che ci siamo sempre posti, ma può sicuramente rappresentare un buono spunto di riflessione, una diversa prospettiva per avere uno sguardo rinnovato e curioso su aspetti che, magari, avevamo sempre dato per scontato. Per me, almeno, è stato così.