Il riparatore – Recensione

Mi capita spesso di essere attratta da un libro per il suo titolo o la sua copertina: se sono persa tra gli scaffali di una libreria, anziché divorare la trama del libro in cinque secondi netti, mi limito ad aprire il romanzo e leggerne la prima pagina. Se il contenuto o lo stile dello scrittore mi incuriosisco, lo prendo! Quando però acquisto un eBook su Internet, la storia cambia perché non è scontato riuscire a trovare l’anteprima della prima pagina per farsi un’idea. Allora baso tutto sul primo impatto, e come spesso accade nella vita di ogni giorno quando si fa affidamento sugli aspetti più superficiali, prendo delle grosse fregature.

Non vorrei dire che “Il riparatore” di F. Paul Wilson lo sia stato del tutto, ma di certo ricordo bene di aver provato una certa delusione nel momento in cui il “soprannaturale” ha fatto il suo spettacolare ingresso in un racconto che tutto sommato mi stava davvero intrigando. La colpa, si intende, non è certamente del libro, ma soltanto mia e della mia insensata fobia delle trame: ho sempre il terrore che mi svelino più di quanto la mia curiosità non possa tollerare.

Ad ogni modo, vi vado a spiegare brevemente di cosa si tratta: Jack è un ragazzone sulla trentina che ha volutamente preso la decisione di emarginarsi dalla società. Lavora da anni nel campo delle riparazioni, un campo che nella maggior parte delle persone non desterebbe il minimo interesse, ma che per i pochi che sanno bene cosa cercare, è un ambito davvero molto apprezzato. Sì perché Jack non si limita a riparare oggetti ed elettrodomestici: lui ripara “situazioni complicate”.

La sua stessa fidanzata è all’oscuro di tutto, e non ha dubbi sulla decisione di lasciare Jack  quando scopre i suoi ‘attrezzi del mestiere’: armi, passaporti falsi e strumenti di tortura.

Dal canto suo, Jack ha i suoi buoni motivi per difendere le proprie scelte di vita, e mentre cerca di capire quali dovranno essere le sue prossime mosse, riceve un nuovo incarico: un indiano privo di un braccio lo ingaggia per

recuperare una collana rubata alla sua vecchia zia che si trova già in ospedale sul punto di morire. La missione lo conduce nei pressi di un mercantile arrugginito nel West Side di Manhattan, e le presenze che ne abitano la stiva sembrano non avere niente a che fare con la realtà che ha sempre conosciuto. Jack si troverà ad affrontare una vendetta che ha viaggiato indenne attraverso i secoli e che rischia di coinvolgere le persone che più ama al mondo.

Molto probabilmente, se avessi letto la trama prima di precipitare le mie dita impazienti sul tasto “Acquista”, la mia delusione non avrebbe avuto ragione di esistere; sarei stata pronta e quasi in trepidante attesa di scoprire che razza di presenza potesse infestare lo scafo di una nave. Ma visto che così non è stato, mi limiterò a qualche breve osservazione che possa aiutare gli ultimi indecisi a prendere una decisione: lo leggo o non lo leggo?

Non ho fatto “orecchie” ne sottolineature durante la lettura, il che significa che non ci sono state frasi o concetti degni di nota e che abbiano colpito nel segno. Il racconto scorre veloce, con le giuste dosi di ansia ed attesa. Se si riesce a far pace con l’ingresso del fantascientifico in una storia che pareva avere fin dal principio i piedi ben piantati per terra, il romanzo ha il suo fascino. La cosa che veramente mi ha colpito e che mi ha lasciato un’impressione finale positiva di questo libro, è stata la presenza dei colpi di scena. Ce ne sono moltissimi, e più si va avanti con la lettura e più quelli aumentano.

Spesso riesco ad indovinare cosa succederà ai protagonisti, come se lo scrittore avesse lasciato troppi indizi lungo il cammino, togliendomi il regalo della sorpresa, ma con Il Riparatore questo non è successo, in nessun momento: caratteristica assolutamente da apprezzare.

Non so se sarò riuscita ad orientare la vostra scelta o se avrò semplicemente creato più confusione, ma in ogni caso vi ringrazio per aver dedicato qualche minuto del vostro tempo alla lettura della mia simil-recensione un po’ sconclusionata.

Il blog senza faccia cambia nome

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Quando ho aperto questo blog un anno e mezzo fa, non pensavo sarebbe durato a lungo. Mi era già capitato in passato di aprire altri blog, ma ogni nuovo tentativo aveva perso senso e spinta nel giro di poche settimane.

Ricordo i pomeriggi spesi a realizzare una grafica accattivante che fosse in grado di incuriosire i passanti, i continui accessi alle statistiche del blog sperando in nuove visualizzazioni, l’estenuante ricerca di contenuti usa e getta che mi garantissero di pubblicare un post dietro l’altro senza la minima personalizzazione, “tanto di quello che penso io non frega a nessuno”.

Poi, nel Gennaio del 2017, ho preso una decisione che ha stravolto la mia vita, e insieme a quella sono cambiate molte cose; io sono cambiata, le mie necessità sono cambiate. Ho cominciato a scrivere per me, nascondendomi dietro a parole senza volto e senza nome: Il blog senza faccia.

Sentivo il bisogno di sfogarmi e lasciare traccia dei miei pensieri, inveire contro certa gente per poi capire che ero stata io a permettere che mi facessero del male.

Ad ogni passo mi sono voltata indietro per guardare che forma avessero le impronte lasciate dalla mia anima in metamorfosi, e così facendo ho continuato a camminare e tutt’ora il mio vagabondare alla ricerca del giusto percorso continua.

Durante il cammino ho scoperto quanto fosse importante condividere paure e riflessioni: ho ricevuto consigli, incoraggiamenti, gratitudine da parte di chi, leggendo le mie prole, ha scoperto di non essere solo nelle sue difficoltà. E’ stato lì che ho deciso di fare coming out e di mostrare il volto della pazza squinternata che stava dietro a questo fiume di parole spesso senza senso: da quel momento ho capito che qualcosa stava cambiando, e che il blog avrebbe dovuto cambiare con me, anche se soltanto nel nome.

È importante non prendersi troppo sul serio, fare della leggerezza (che non è superficialità) il proprio mantra, ma è altrettanto importante imparare a fare sul serio, e non lasciare che il mondo intorno decida per noi quale debba essere la forma della nostra anima.

Quindi per chi già mi legge da un po’ e per chi prima o poi mi leggerà: “benvenuti sul mio blog La forma dell’anima”.

www.laformadellanima.blog

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Non voglio sembrare bella, mi ci voglio sentire.

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“Anna stringe la cintura e più la stringe più le fa male
Sua madre dice “se bella vuoi apparire amore un po’ devi soffrire”
Ma lei in cuor suo sa benissimo quello che deve fare
Io bella non voglio sembrare
Io mi ci voglio sentire”

E’ una citazione tratta dal testo della canzone “La stagione”, dei The Zen Circus. Per chi non li conoscesse, sono un gruppo di Livorno della sfera indipendente che da molti anni tratta tematiche sociali ma anche più personali, con testi molto intensi e sinceri. Vi lascio qui il link alla canzone nel caso siate curiosi di ascoltarla: https://www.youtube.com/watch?v=JeNGfOmQCT8

La prima volta che ho sentito queste parole, ho subito pensato che centrassero in pieno un disagio che è comune a tantissime ragazze e donne di ogni età, me inclusa: fare di tutto per apparire belle ed impeccabili ma senza riuscirci mai, perché gli occhi che non riusciamo ad accontentare sono i nostri. Ci sentiamo incitate dalla società e dagli esempi che questa ci propone di seguire, ci danniamo per somigliare il più possibile a modelle e fashion blogger che hanno fatto dell’apparenza il loro mestiere, ma poi ci guardiamo allo specchio e pensiamo di non aver fatto abbastanza, di non valere niente; e quindi ricominciamo con un nuovo tentativo, una nuova crema, un nuovo taglio di capelli. Ma per quanto proveremo a fare, non ci vedremo mai belle abbastanza, perché noi, belle, non riusciamo proprio a sentirci.

I motivi sono sempre gli stessi: i media che ci bombardano con immagini perfette, photoshoppate – che poi noi lo sappiamo benissimo che di reale in quelle foto non c’è un bel niente, ma il nostro inconscio ha credenze tutte sue che ci spingono a snobbare la ragione – facendoci credere che il nostro valore intrinseco dipenda dal nostro aspetto esteriore (non potrebbero fare altrimenti: i libri di psicologia non vendono quanto le creme antirughe). Aggiungiamoci il senso di inadeguatezza che a volte ereditiamo da una storia familiare travagliata o dalle brutte esperienze della vita, ed ecco servite delle donne insicure e prive di autostima pronte a tutto pur di “apparire” perfette.

Ma se invece di correre dall’estetista, dal parrucchiere e dalla dietista ci fermassimo a riflettere anche solo un momento, ci renderemmo conto che tutto questo affannarsi dietro alla ricerca della perfezione non serve assolutamente a niente, se non a svuotare i nostri portafogli e far calare ulteriormente la nostra autostima.

Ho provato a rispondere a queste due semplici domande, e sono rimasta spiazzata dalla risposta banale che ne scaturisce:

  1. Quanto conta l’aspetto fisico delle persone che amo?
  2. Quante sono le persone che stimo soltanto perché hanno un bell’aspetto fisico?

Non si scelgono gli amici in base al loro aspetto, né amiamo meno nostra madre o il nostro compagno di vita perché non ha un fisico perfetto. Tutt’altro; spesso ci scopriamo segretamente ad impazzire per i loro difetti.

Certo, se ciò a cui si aspira nella vita è calamitare gli sguardi superficiali dei passanti facendosi gridare dietro sequele di apprezzamenti (a volte anche poco carini), allora la strada giusta è presto trovata: è sufficiente spendere tutte le proprie energie per ottenere addominali scolpiti e glutei sodi, e sperperare soldi in continui trattamenti anti cellulite, labbra finte e seni rifatti. So di donne infelici nonostante abbiano quasi raggiunto la perfezione che cercavano, ma non voglio spoilerare niente.

Probabilmente dovremmo semplicemente ficcarci in testa due o tre mantra da ripetere in continuazione per arrivare a convincerci che siamo già belle così come siamo, ma non credo che possa essere una soluzione definitiva. Inoltre, sentirsi dire “sei bella come sei” da donne che troviamo bellissime, non solo non ci aiuta, ma addirittura ci fa sentire sbeffeggiate e derise.

Credo che il punto focale non sia la bellezza, ma la convinzione che questa bellezza sia la bilancia del nostro valore: più siamo attraenti, più valiamo, meno lo siamo, più ci sentiamo insignificanti.  E’ piuttosto il contrario! Il nostro aspetto dovrebbe passare in secondo piano rispetto al mondo che abbiamo dentro e che è immenso (e spesso inesplorato). Conosco persone che hanno fatto dei difetti fisici il proprio punto di forza, persone amate e stimate nonostante la loro apparenza non rasenti neanche minimamente la perfezione tanto acclamata e ricercata dalla società odierna. Che poi, tutto sommato, al loro aspetto chi c’aveva neanche fatto caso?

Voglia di scrivere…ma cosa?

Da quando stamattina ho aperto gli occhi al fastidioso suono della sveglia, ho sentito un’irrefrenabile voglia di scrivere. Non vedevo l’ora di tornare a casa dal lavoro e mettermi davanti al computer avvolta dall’ovattato silenzio della sera.

Il bello è che cinque minuti fa, seduta davanti a questo computer, mi son ritrovata a pensare: “e adesso cosa diavolo scrivo?”.

Conoscete quella sensazione che vi invade quando sentite il vostro corpo fremere nell’attesa di qualcosa di straordinario, e alla fine non era affatto come ve lo aspettavate? Ecco, quello che sto provando adesso somiglia molto ad una delusione tagliente e sottile come un foglio di carta.

Non ho voglia di fermarmi a riflettere ne’ tanto meno inventare un argomento di discussione soltanto per accontentare questa smania senza senso. Magari dovrei scrivere e basta. Probabilmente quel qualcosa che mi sento spingere da dentro ha solo bisogno di prendere in prestito le mie mani per dire qualcosa.

Dai! Ora le mie mani le hai. Fammi vedere cos’hai di tanto importante da dirmi!

Sono passati dieci minuti. Quel “qualcosa” che sentivo spingere e scalciare si è assopito, e adesso avverto solo un senso di vuoto.

Gran bel modo di comunicare! Complimentoni! Volevi che scrivessi, e io mi sono prestata al tuo gioco! Volevi condividere qualcosa con qualcuno, e adesso mi lasci qui da sola, come una cretina, a dire parole senza senso a quella che forse era soltanto una semplice agitazione di stomaco!

Dolce anima mia, mi vuoi far credere che ti sei agitata tanto tutto il giorno soltanto per farmi capire che da qualche parte, dentro di me, c’è uno spazio troppo vuoto? Be’, se è questo quello che volevi dirmi, arrivi tardi. So che a volte ci metto un po’ a fare miei certi concetti, ma quello del vuoto contro cui vuoi combattere, mi è piuttosto chiaro da diversi mesi.

Probabilmente dovrei smettere di pensare a “come” riempirlo e provarci e basta. Al diavolo questa testa critica e spaventata che non mi porta da nessuna parte che non sia “l’indietro”. Scusate, so che non si dice, ma mi prenderò almeno questa licenza poetica dato che quello di cui ho bisogno veramente non riesco a prendermelo.

Al diavolo la smania, me ne vado a dormire.

Buona notte a tutti.

 

Sei padrona di te stessa quando

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Sei padrona di te stessa quando non dai più modo alle persone di ferirti, di farti sentire in forse, di farti sentire sbagliata, di non farti sentire mai abbastanza. Sei padrona di te stessa quando inizi ad amarti“.

Ho trovato questa frase mentre girovagavo senza meta sul web, durante una di quelle sere in cui vorrei fare qualcosa di costruttivo ma proprio non so cosa, e allora prendo tempo.
Ogni tanto vorrei tornare a leggere queste poche righe per vedere se il percorso che ho intrapreso sia giusto o se mi sta soltanto portando a girare in tondo: vorrei rileggerle perché sono il riassunto esatto di chi sono adesso (una persona insicura che teme lo sguardo altrui e spesso anche il proprio), e di chi invece vorrei diventare (una persona decisa, sicura, che si ami almeno un po’, e che dello sguardo degli altri se ne sbatte altamente).
Soltanto nel recente passato mi sono resa conto di quante sfumature abbia il mio volto, quante la mia voce, quante il mio sguardo. E’ stato come guardare dentro ad un baule pieno di maschere, ognuna delle quali si adatta alla perfezione a questa o a quella persona e situazione. E in tutto questo, la cosa più strana e assurda è stata rendermi conto che, se anche volessi cercare il mio vero volto in mezzo a tutte quelle maschere, non saprei nemmeno com’è fatto. Riconosco l’espressione che assumo sempre davanti ad uno specchio, mentre tiro su le sopracciglia stando bene attenta a non mettermi di profilo; riconosco l’espressione che faccio per celare a qualcuno la noia o, peggio ancora, il totale disinteresse; riconosco l’espressione che assumo quando trasformo volontariamente il mio viso come fosse plastilina per mostrare un finto stupore, mentre nella mia testa recito il mantra “fa che sembri vero, fa che sembri vero”.
Sono talmente abituata a fingere di essere chi non sono, che ho smarrito la mia vera essenza. E la cosa mi stravolge non poco.
Non so cosa mi piace davvero, cosa preferisco e cosa no, quali sono i miei sogni, quali i miei punti di forza. E va da se che bastano uno sguardo ambiguo o una parola di disappunto a mettere in dubbio anche le poche certezze che mi restano. Mi sento immediatamente in difetto, sbagliata, senza speranza di migliorare. La mia sicurezza comincia a vacillare e non è semplice tenerla in bilico tra la speranza e l’abisso. L’impalcatura che ho montato tutta intorno a me non ha solide fondamenta su cui poggiare: spesso basta una folata di vento a scuoterla, e un piccolo terremoto a farla cascare a pezzi. Non è semplice ogni volta dover ripartire da zero. E allora, nel frattempo che la mia autostima migliori, girovago nel limbo, in attesa di un Virgilio che mi mostri la strada da seguire. Cerco di tenere un profilo basso, che mi renda il più possibile invisibile allo sguardo indagatore degli altri. La sola idea di non sapere cosa qualcuno sta pensando di me mentre mi guarda, mi manda in paranoia:”avrò i capelli fuori posto? Una smagliatura sulle calze? Sembro fuori luogo vestita così? Starà pensando che sono stupida. Ok, tranquilla, fai finta di niente e vedrai che presto volgerà lo sguardo altrove. Perché la gente non si fa i fattacci suoi? Ma cosa avrà tanto da guardare quella? Prima fa finta che io non esista e poi passa la serata a guardarmi!”….e così via…non mi addentrerei oltre nel labirinto delle mie infinite paranoie.
Vorrei davvero non dovermi più curare degli sguardi altrui; vorrei sentirmi tranquilla, sicura di me, positiva. Vorrei sentirmi bella, o meglio più semplicemente sentirmi bene nel mio corpo e nella mia testa, senza dover continuamente prendere a schiaffi dei pensieri talmente stupidi da dubitare di essere stata davvero io a partorirli.
Be’, direi che come prima perla del mio baule, non è niente male. E’ una frase che mi tiene coi piedi per terra e allo stesso tempo mi sprona a proseguire verso il più grande (e forse unico) obiettivo che ho al momento: trovare me stessa e permettermi il lusso di dire “Ok, sono fatta così. Qualcosa mi piace, qualcosa no, ma sto“.

 

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Il mio baule da viaggio.

Baule

Ieri riguardavo le immagini nella galleria del mio cellulare per fare un po’ di pulizia delle foto inutili o, semplicemente, di quelle foto che mi riportano a ricordi a cui non voglio più lasciare spazio. E oltre ai ricordi del passato, mi sono imbattuta in moltissimi screenshot che neanche ricordavo di aver fatto (e che, per chi non fosse particolarmente avvezzo al linguaggio tecnologico, non sono altro che foto di ciò che stai visualizzando sullo schermo del tuo cellulare in un preciso istante): molti mostrano soltanto titoli di canzoni, ricette e acconciature. Ma in tutto questo fritto misto, ho ritrovato anche fermi immagine di frasi o consigli che per qualche motivo mi hanno colpito nell’istante stesso in cui li ho letti; piccole perle da cui vorrei ripescare, così ad occhi chiusi, nei momenti in cui perdo un po’ l’orientamento e ho bisogno di qualcosa che mi dia una piccola spinta, qualcosa che mi faccia ricordare da dove sono partita e perché sto viaggiando. Con questo fine, ho deciso di creare una sorta di baule da viaggio in cui mettere tutto questo, un po’ alla rinfusa, anche perché molto ordinata io non lo sono mai stata. Se ne avete voglia, vi invito a sbirciare in questo baule ogni tanto, non si sa mai che condividere cose preziose possa portare a qualcosa di speciale che ancora non so immaginare.

Cliccate qui per entrare nel mio baule da viaggio: Il Mio baule da viaggio

È tardi! È tardi, sai? Io sono già in mezzo ai guai! Neppure posso dirti “ciao”. Ho fretta! Ho fretta, sai?

Alice in Wonderland 3D

Per molti la vita è soltanto una dannata e stupida lotta contro il tempo: lavori per poterti permettere il lusso di arrivare in fondo al mese senza debiti, e perché no, farci scappare pure qualche abbuffata di sushi all-you-can-eat e i soldi per un viaggetto ogni tanto.

Io credo che ci sia di più. E lo credo perché a volte mi capita di scorgere un segnale, una specie di puntino luminoso che brilla al centro della mia anima assopita, a metà tra la superficialità e la pazzia.

Capita che, stordita dal brusio generale che mi spinge a correre da mattina a sera senza interruzione, mi accorga che invece qualcuno intorno a me ha rallentato la corsa per un istante, senza paura di arrivare ultimo, senza smania di arrivare primo (primo davanti a chi poi?), riuscendo a plasmare quel tempo che tanto bramiamo, fino a dargli la forma dei propri sogni.

“Quella è una persona che ha avuto coraggio”, mi dico, “o magari solo fortuna” (che comunque non guasta mai).

E cosa faccio quando scorgo questi segnali? Mi convinco che a me non importa mirare così in alto. A me basta potermi godere quel paio d’ore in fondo alla giornata, abbracciata alla persona che amo, in compagnia dei miei fratelli oppure al pianoforte, o sdraiata sul divano a leggere un buon libro.

Quando il cervello comincia a ragionare così, è necessario fare un reset e ripartire da un’altra prospettiva. Perché quella dimensione, quella del cervello omologato alle aspettative sociali, non ti consente di fare altro se non camminare veloce e a testa bassa, come se qualcuno ti inseguisse, illudendoti di avere la piena consapevolezza di dove stai andando. Ma col cavolo che ce l’hai.

E quando la pizzata con le amiche del martedì sera salta e ti ritrovi sola nel silenzio di casa tua, le grandi domande della vita ti presentano il conto in cerca di risposte, sbeffeggiandoti, ricordandoti che il tempo passa e tu ancora non hai deciso cosa farai da grande.

A trent’anni (quasi trentuno ormai), probabilmente è tardi, o forse non lo è ancora troppo. Ma certamente non si può prescindere dal prendere una decisione, e farlo prima che sia ‘troppo’ tardi.

Decidere in quale direzione andare è sintomo di grande maturità, o forse solo di pazzia; di certo, c’è che ti mette davanti ad una grande responsabilità. Se la strada che scegli dovesse rivelarsi sbagliata, non potresti più dare la colpa al tempo, alle persone, alla vita, come quotidianamente ed inconsciamente fai. La colpa sarebbe soltanto tua.

Chi ha voglia di accollarsi questo peso immane?

Cercare dentro di me la risposta alla domanda:”cosa vuoi fare della tua vita?”, mi terrorizza. Fino ad ora mi sono sempre limitata a rispondere:”voglio essere felice”. E a dirla tutta, dopo un inizio anno disastroso, sono molti di più i momenti in cui mi sento nel posto giusto al momento giusto, che non sull’orlo del baratro. Ma è ovvio che questo non può bastare, perché accontentarmi proprio non mi riesce (seppure io ci abbia provato per anni, come tutti mi consigliavano di fare).

Non sono una che si tira indietro davanti alle responsabilità. Ho sempre lottato per portarle fino in fondo, e mi sono spesso sobbarcata anche quelle altrui (che grave errore!). E forse proprio perché so quanto certe responsabilità possano pesare, sono spaventata all’idea di prenderne di nuove. So per certo che non mi tirerei indietro una volta in marcia; ma prima di partire, ormai da diverso tempo, mi scopro ad indugiare sulla soglia del presente sperando nell’arrivo di una cartomante che guardando nella sua palla di cristallo mi sappia indicare la strada giusta per me. E quindi, nel frattempo, scruto l’orizzonte per vedere se riesco a dare una sbirciatina a ciò che si cela oltre la punta del mio naso. Ma c’è troppa nebbia, tanta che mi offusca i pensieri e non mi permette di avere una rapporto nitido e trasparente neanche con me stessa.

Vorrei che questa nebbia si diradasse, vorrei riuscire a piangere i miei sogni infranti senza farmi definitivamente abbattere dalle passate sconfitte. Vorrei acquisire la consapevolezza che un errore non è un fallimento ma soltanto un’esperienza da cui imparare e ripartire.

Ci sono dei desideri silenti e deboli da qualche parte nella mia testa a cui non so dare una voce.  Mi manca il coraggio, o meglio, mi manca la “cazzimma”, come dicono a Napoli. E’ necessario che io trovi prima di tutto la consapevolezza di meritare la felicità che sto inseguendo, altrimenti continuerà a scapparmi come il coniglio di Alice nel Paese delle Meraviglie, e come la protagonista della fiaba continuerò a sentirmi grande, poi minuscola ed insignificante, e continuerò a provare pozioni magiche che poi magiche non sono, nella speranza che mi cambino la vita in un lampo. Eppure so bene che non c’è trucco che tenga:  l’unica via è la lotta, per se stessi e per la propria libertà di scelta; non esistono scorciatoie.

Sono attanagliata dalla fottuta paura che la vita possa passarmi davanti talmente in fretta da sembrarmi solo un sogno.

Un sogno a cui, se non mi decido a partire adesso, non avrò mai dato la possibilità di avverarsi.

Ho paura del vuoto.

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Ma chi voglio prendere in giro? A chi voglio darla a bere?

Io non sono io, e a questo punto non so neanche se lo diventerò mai.

Mi sento a disagio in questa testa, in questa foresta nera che cerca in ogni modo di sabotare la me che ogni tanto sento bisbigliare da dentro, quando i pensieri si fanno più radi; la intravedo laggiù, oltre lo stomaco, dentro alle scarpe.

A volte faccio e dico cose talmente assurde da non credere di essere stata davvero io a dirle o pensarle; certe volte semplicemente guardo il mio corpo muoversi e ascolto la mia lingua emettere suoni inutili, privi di calore.

Però (parolaccia impronunciabile), da qualche parte, non so dove, io sento di essere qualcosa di più di questo frastuono che mi occupa la testa ogni istante. E solo quando canto, quando scrivo, quando sono persa in un abbraccio o quando ascolto attentamente una canzone, quel frastuono perenne riesco a zittirlo per un po’, e solo allora mi sento più leggera. Non so se quel “qualcosa in più” che credo di essere, sia una bella cosa o meno; però (altra imprecazione dettata dall’impotenza del momento) vorrei davvero poterlo toccare con mano. Solo a quel punto potrei dire “no, in effetti non valeva la pena darsi tanto da fare per scoprirlo”, oppure (magari): “caxxo, ma è una figata, perché non me ne sono accorta prima!”.

Il problema è che ci vuole coraggio per farlo, e io quel coraggio non riesco ancora a trovarlo; la paura di deludere me stessa e gli altri mi attanaglia e mi riduce ad un essere spaventato ed ansioso che cerca di guardarsi dentro e di guarire quanto meno le ferite ancora aperte di quando ero bambina.

E poi, se anche quel coraggio io lo trovassi davvero, so che non sarebbe sufficiente. Purtroppo la mia autostima è pressoché inesistente, se pure io continui a ripetermi che alla fin fine quella che ho mi basta e mi avanza, tanto che me ne frega, io campo lo stesso. E più questa fottutissima autostima si fa minuscola e fragile, più il mostro che abita il mio cervello diventa gigante, ingombrante, rabbioso; basta vedere il disastro che combina quando ogni tanto perdo le staffe e ne perdo il controllo. E’ capace di divorare me e chi mi circonda in una frazione di secondo.

E pensare che molto spesso, quando il mostro sta per sabotarmi ancora, io me ne accorgo pure. Però lo lascio fare: resto impietrita ed inerme ad osservarlo, desiderando nel contempo di diventare invisibile, come a dire: “quel mostro non è mio, io non c’entro niente, io sono un ‘altra cosa. Mettetelo in catene e fatene ciò che volete”.

Quando ho a che fare con persone che non conosco e che non mi conoscono, mi capita spesso di tenere lo sguardo basso come facevo a scuola, quando il prof scrutava i banchi col naso per aria, nell’interminabile trepidazione di chi proprio non sa decidere chi chiamare alla lavagna. Non so a voi, ma a me ogni volta qualcosa cascava inavvertitamente nello zaino e per delle mezz’ore proprio non riuscivo più a trovarlo.

Gli sguardi altrui mi mettono molta ansia, perché do per scontato che siano uguali al mio: arroganti, saputelli, critici e cattivi. Il mio, di sguardo, mi rimprovera continuamnte, ricordandomi quanto sono inadeguata, imperfetta, antisociale, cicciottella, sbagliata e tutto il resto.

Riflettendo a lungo su questa difficoltà nell’accettare me stessa (soprattutto al cospetto degli “altri”), mi sono resa conto di quanto spesso io risulti davvero insulsa e senza grinta. Se qualcuno mi parla, in automatico il mio cervello elabora la frase più breve e priva di personalità possibile per far morire sul nascere qualsiasi tipo di contatto o dialogo. Per dare una spiegazione razionale a questo meccanismo infame, sulle prime ho dato la colpa alla timidezza, dando per scontato che il tempo lo avrebbe aggiustato. In seguito ho pensato che forse di contenuti di spessore, dentro a questo corpo ingombrante, ce ne sono davvero pochi. Poi ho capito che è un semplice e stupido meccanismo di difesa che il mio cervello attua contro la paura: la paura di scoprire che dietro a questo computer, dietro a questi occhiali e dietro a queste parole vane, non ci sia davvero niente di più. Ho paura che se dessi agli altri la possibilità di conoscermi più a fondo, ci troverebbero davvero il vuoto cosmico: a quel punto non avrei più scuse, niente altro con cui giustificare i miei reiterati sbagli, la mia costante imperfezione. Il vuoto mi spaventa più del mostro famelico che mi abita la testa da sempre.

Probabilmente, il fatto di restare sul vago con frasi del tipo “oggi fa freddo”, “a lavoro come va?”, da al mio cervello l’illusione di prendere tempo; in questo modo può aggrapparsi sempre alla speranza di poter dimostrare più avanti il proprio spessore, alla faccia di chi mi credeva insulsa.

Che idiota.

Lo so, tutti i manuali di autostima sono contrari alle frasi dolci e amorevoli che mi rivolgo quotidianamente come fossero un mantra: che cretina; avresti potuto pensarci; non sei buona a niente; se continui così non andrai da nessuna parte.

Ma non riesco a farne a meno. E’ così che sono stata cresciuta dalle persone che avrebbero dovuto amarmi e farmi sentire importante, e ripetermi che sono sbagliata mi da la speranza di potermi riscattare con più facilità: partendo dal fondo, la spinta per risalire dovrebbe essere maggiore.

Devo essere sincera: vorrei davvero mettere fine a questo patetico teatrino messo su dal mio cervello infame. Anche perché sono convinta che qualcosa, oltre questa coltre di nebbia, ci sia davvero. E so che c’è perché è lei che a volte prende il mio stomaco e lo stringe forte fino a farmi male, lei che spinge queste lacrime su fino agli occhi passando per la gola, lei che riesce a farsi amare dalla persona speciale che ho accanto, e che probabilmente ogni tanto riesce a vederla e a parlarci.

Prima o poi anche io la scoverò. Troverò il coraggio di farlo. Spero solo di riuscire ad affrontare con serenità quello che troverò, anche se potrebbe non essere speciale come vorrei.

L’ultima poesia

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Ci sono momenti in cui mi sento infinitamente sola, in cui mi sento un’aliena di un mondo lontano caduta per sbaglio sulla terra; so di avere una famiglia, di essere stata bambina ed esser pian piano diventata grande, ma purtroppo non ho molti ricordi legati alla mia infanzia; ho una sorta di vuoto cosmico che mina fortemente il mio senso di appartenenza a questo mondo. Mi torna alla mente un solo episodio dell’ultimo anno di asilo (quando cascando all’indietro da una panca mi trovai con le labbra sulle labbra di un bambino col caschetto biondo), e poi soltanto l’incubo sfuocato delle scuole elementari. Però una cosa che ricordo bene c’è: quando tornavo a casa e i cartoni animati finivano, amavo chiudermi al sicuro dentro di me, tra le mura della mia anima, con davanti il quadernino delle mie poesie. Non c’era niente che mi emozionasse di più di una matita con una punta ben fatta e un foglio di carta bianco tutto da riempire. In quei momenti mi sentivo felice, potente, emozionata. Purtroppo, però, quelle poesie riesco a ricordarle solo vagamente: parlavano di luci, di ombre, di sfumature e silenzi. Non ne ho conservata nessuna, perché quando si è piccoli non si ha molta cura delle cose; si ha solo bisogno di prendere il momento, impiastricciarlo e giocarci fino a quando non lo si è stropicciato per bene. Poi tutto ricomincia daccapo.

Un’altra cosa rimasta vivida nella mia memoria, è il momento in cui ho scritto l’ultima poesia.

Era l’estate della prima media. Tra meno di una settimana sarebbe ricominciata la scuola, e avrei dato qualsiasi cosa per spezzare l’ansia del rientro; tutto tranne la sua vita: “Valentina è morta. Era al mare coi genitori, ha avuto un attacco d’asma fortissimo, non aveva con sé le sue medicine e l’ambulanza non ha fatto in tempo a rianimarla”. Sul subito pensai soltanto “che stupido scherzo”, come se il mio cervello di ragazzina non potesse neanche concepire la morte di una persona. Che concetto astratto che era allora per me la morte.

Quando mi resi conto che era tutto dannatamente reale, il massimo che la mia anima destabilizzata riuscì a partorire fu la consapevolezza che non avrei più visto quella splendida bambina bionda al banco in seconda fila ; non avrei più visto i suoi occhi azzurri e sereni che tanto invidiavo, o l’angioma a forma di cuore disegnato sulla sua guancia. La semplificazione estrema di un disagio che ancora non intuivo neanche lontanamente.

Rientrati in classe, i professori chiesero ad ognuno di noi compagni di scrivere una poesia per lei: la più bella sarebbe stata letta durante i suoi funerali.

Io, che ero stata sempre timida e riservata, non volevo che la mia poesia “vincesse”. Non c’era nessuna vittoria da portare a casa da una disgrazia simile. E allora scrissi solo per lei, come se lei fosse ancora seduta a quel banco in seconda fila. Quaranta minuti mi furono sufficienti a versare tutte le lacrime necessarie a sciogliere il groppo che avevo in gola. L’inchiostro blu di qualche parola si era trasformato in una macchia tonda dai bordi frastagliati, ma l’insegnante riuscì comunque a leggere la poesia fino alla fine.

“Bravissima. Una poesia bella ed emozionante che potrà dare voce alla nostra sofferenza, e che ci permetterà di raccontare quanto fosse speciale Valentina per tutti noi. Se te la senti, sarai tu a leggerla in chiesa”.

“Professoressa…preferirei di no.”

“Prof, se è d’accordo la leggo io. Valentina era la mia amica del cuore”

“D’accordo, allora la leggerai tu Daniele”.

Durante i funerali Daniele si incamminò verso l’altare con la testa bassa, il viso affranto ma allo stesso tempo fiero del momento di gloria che avrebbe vissuto di lì a poco. Tutti i partecipanti al funerale piansero senza sosta mentre le parole della mia poesia scorrevano semplici e strazianti come solo la morte di una bimba di 12 anni può essere. Io però, stranamente, non piansi mai. Restai impassibile, in silenzio, covando dentro la fottuta paura che potessero chiamarmi al leggio da un momento all’altro.

D’altronde io avevo già fatto tutto ciò che sentivo di fare: Valentina l’avevo già salutata dal banco in terza fila, lasciando che un pezzetto della mia anima volasse via con lei. Da allora non ho mai più scritto poesie.

 

Non accontentarti mai, non svenderti mai.

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Avrei tanto voluto che i miei genitori  mi insegnassero fin da piccola a non accontentarmi delle vie di mezzo, a non accontentarmi del “meno peggio”, a non svendere me stessa in cambio di un po’ di compagnia e un briciolo di comprensione.

Ma purtroppo non è andata così, e ho dovuto imparare a mie spese cosa sia il rispetto per se stessi, a discapito delle regole sociali e di tante morali del cazzo.

Alla veneranda età di 30 anni, mi sono improvvisamente resa conto che non avrò altre vite a disposizione per provare altre strade; e quindi, se voglio qualcosa per me, devo cercare di conquistarla adesso. E se alla gente intorno non sembra giusto….che si fotta. Tutta quanta.

Normalmente sono molto pacata e gentile col mondo intorno (anche se da qualche espressione colorita poco sopra si potrebbe evincere il contrario), e non vorrei dover essere costretta a cambiare questo mio aspetto “educato” che apprezzo molto quando lo trovo anche negli altri. Ma non esisterà più che, per essere educata, io vìoli me stessa e mi faccia pestare i piedi senza aprir bocca.

Tante, tante e tante volte ho abbassato la testa e ho lasciato che mi facessero del male pur di non scontentare gli altri. Questi “altri” che però non meritavano affatto tutto il mio dolore. “Altri” che neanche si rendevano conto di quel dolore. Altri che, pur vedendolo, non apprezzavano il mio sacrificio.

Forse, parlando così in termini generali, è un po’ complicato rendere il concetto, mentre vorrei che fosse ben chiaro. E non tanto perchè altri lo capiscano, ma perchè io stessa, rileggendo queste righe tra qualche tempo, possa ricordare vividamente cosa sto provando adesso: il coraggio di essere me stessa, la consapevolezza di ciò che voglio e di quello che non voglio, il rispetto per la me piena di difetti che deve pretendere questo stesso rispetto anche dagli altri.

Ho smesso di rincorrere, sperare e desiderare la presenza di persone che mi hanno ferita in passato e che non meritano il mio impegno. Non perchè io sia speciale, diversa o chissà cos’altro, ma semplicemente perché ho il dovere di proteggermi dalla gente intorno che non è sempre disposta a fare attenzione a non calpestare i sentimenti altrui. Ho smesso, lo confermo, ma resistere alla tentazione di cascarci di nuovo è difficile. E’ difficile per tutto il cuore che ci ho messo al tempo in cui certe relazioni sembravano poter funzionare davvero. E sono consapevole che i grandi e piccoli pezzetti di cuore che ho regalato, non mi saranno restituiti.

Spero che il cuore rimasto sia abbastanza per far felici le persone che verranno.