Cambiare come cambia il vento

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“Bisogna chiudere i cicli. Non per orgoglio, per incapacità o per superbia. Semplicemente perché quella determinata cosa esula ormai dalla tua vita. Chiudi la porta, cambia musica, pulisci la casa, rimuovi la polvere. Smetti di essere chi eri e trasformati in chi sei.”

Paulo Coelho, dal libro Il manoscritto ritrovato ad Accra

 

Ho abbandonato la mia vecchia vita la sera del Blue Monday, il giorno più triste dell’anno. E’ stato come se il destino si facesse beffe di me, di noi, come a dire:”avevo previsto tutto, non c’era un altro finale possibile”.

La mattina di quel 16 Gennaio mi sono alzata presto e ho cominciato a pulire la casa, fare lavatrici e preparare la valigia come se stessi per partire per un viaggio qualunque.

Mi vengono i brividi quando ripenso alle ultime difficili ore prima di riuscire a chiudermi il portone alle spalle, girare la chiave nel quadro della macchina, e correre via senza una meta, con gli occhi annebbiati dalle lacrime e il buio a nascondermi dal resto del mondo.

Ma non ho avuto scelta. Ormai si era fatta impellente l’esigenza di cambiare, soffrire fino quasi a morirne per poi rinascere ancora. Non potevo continuare ad essere chi ero stata fino a qualche mese prima; la persona che ero diventata mi ha costretta ad una scelta: o lui o me. E scegliere lui, avrebbe significato darla vinta alla routine, all’apatia, alle aspettative sociali, alla tristezza, alla depressione.

Sul momento e per molte settimane a venire, mi sono sentita sconfitta. Sentivo di aver fallito, e più di ogni altra cosa temevo che quel fallimento avrebbe influenzato negativamente il resto della mia vita.

Eppure col tempo qualcosa è cambiato. Ho fatto mia la consapevolezza che non tutto è giusto, non tutto ha un senso, non tutto dura per sempre.

Se penso al “per sempre”, non riesco a trovare molte cose da buttarci dentro. Forse l’amore per i figli? Non so, non ho ancora avuto la fortuna di provarlo. Ma credo che sia molto vicino all’amore che provo per i miei fratelli o per mia nipote, la bambina che non mi permettono più di vedere da quel Blue Monday. È una bambina davvero speciale; ho sempre stravisto per lei e lei per me. Sua madre diceva sempre:”quando arriva zia, per lei è come se spuntasse il sole”. Da quando è nata, l’ho cullata per tranquillizzarla, le ho cantato ninne nanne per farla addormentare, le ho cambiato il pannolino, l’ho consolata quando metteva il broncio. Abbiamo giocato insieme, riso come matte, fatto le boccacce e fatto insieme l’albero di natale. Ecco, l’amore per mia nipote è una delle cose che dentro al “per sempre” ce la metterei senza paura alcuna.

Vorrei poterci mettere molte altre cose in quel baule prezioso; farlo mi darebbe la tranquillità che tanto cerco. Ma dato che ho imparato che tutto ha un ciclo anche dentro di noi, meglio evitare; correrei di nuovo il rischio di vederlo rovesciarsi e perdere ogni certezza conservata con tanta cura nel corso degli anni.

Io stessa dovrei diventare una delle poche certezze della mia vita, perché di me non posso fare a meno neanche se volessi. E visto che in me ci sono dei cicli che cambiano e si rincorrono, devo solo imparare a seguirli e distinguerli, senza costringermi a rimanere immobile in un passato che l’attimo dopo è già svanito, cambiando come cambia il vento.

È tardi! È tardi, sai? Io sono già in mezzo ai guai! Neppure posso dirti “ciao”. Ho fretta! Ho fretta, sai?

Alice in Wonderland 3D

Per molti la vita è soltanto una dannata e stupida lotta contro il tempo: lavori per poterti permettere il lusso di arrivare in fondo al mese senza debiti, e perché no, farci scappare pure qualche abbuffata di sushi all-you-can-eat e i soldi per un viaggetto ogni tanto.

Io credo che ci sia di più. E lo credo perché a volte mi capita di scorgere un segnale, una specie di puntino luminoso che brilla al centro della mia anima assopita, a metà tra la superficialità e la pazzia.

Capita che, stordita dal brusio generale che mi spinge a correre da mattina a sera senza interruzione, mi accorga che invece qualcuno intorno a me ha rallentato la corsa per un istante, senza paura di arrivare ultimo, senza smania di arrivare primo (primo davanti a chi poi?), riuscendo a plasmare quel tempo che tanto bramiamo, fino a dargli la forma dei propri sogni.

“Quella è una persona che ha avuto coraggio”, mi dico, “o magari solo fortuna” (che comunque non guasta mai).

E cosa faccio quando scorgo questi segnali? Mi convinco che a me non importa mirare così in alto. A me basta potermi godere quel paio d’ore in fondo alla giornata, abbracciata alla persona che amo, in compagnia dei miei fratelli oppure al pianoforte, o sdraiata sul divano a leggere un buon libro.

Quando il cervello comincia a ragionare così, è necessario fare un reset e ripartire da un’altra prospettiva. Perché quella dimensione, quella del cervello omologato alle aspettative sociali, non ti consente di fare altro se non camminare veloce e a testa bassa, come se qualcuno ti inseguisse, illudendoti di avere la piena consapevolezza di dove stai andando. Ma col cavolo che ce l’hai.

E quando la pizzata con le amiche del martedì sera salta e ti ritrovi sola nel silenzio di casa tua, le grandi domande della vita ti presentano il conto in cerca di risposte, sbeffeggiandoti, ricordandoti che il tempo passa e tu ancora non hai deciso cosa farai da grande.

A trent’anni (quasi trentuno ormai), probabilmente è tardi, o forse non lo è ancora troppo. Ma certamente non si può prescindere dal prendere una decisione, e farlo prima che sia ‘troppo’ tardi.

Decidere in quale direzione andare è sintomo di grande maturità, o forse solo di pazzia; di certo, c’è che ti mette davanti ad una grande responsabilità. Se la strada che scegli dovesse rivelarsi sbagliata, non potresti più dare la colpa al tempo, alle persone, alla vita, come quotidianamente ed inconsciamente fai. La colpa sarebbe soltanto tua.

Chi ha voglia di accollarsi questo peso immane?

Cercare dentro di me la risposta alla domanda:”cosa vuoi fare della tua vita?”, mi terrorizza. Fino ad ora mi sono sempre limitata a rispondere:”voglio essere felice”. E a dirla tutta, dopo un inizio anno disastroso, sono molti di più i momenti in cui mi sento nel posto giusto al momento giusto, che non sull’orlo del baratro. Ma è ovvio che questo non può bastare, perché accontentarmi proprio non mi riesce (seppure io ci abbia provato per anni, come tutti mi consigliavano di fare).

Non sono una che si tira indietro davanti alle responsabilità. Ho sempre lottato per portarle fino in fondo, e mi sono spesso sobbarcata anche quelle altrui (che grave errore!). E forse proprio perché so quanto certe responsabilità possano pesare, sono spaventata all’idea di prenderne di nuove. So per certo che non mi tirerei indietro una volta in marcia; ma prima di partire, ormai da diverso tempo, mi scopro ad indugiare sulla soglia del presente sperando nell’arrivo di una cartomante che guardando nella sua palla di cristallo mi sappia indicare la strada giusta per me. E quindi, nel frattempo, scruto l’orizzonte per vedere se riesco a dare una sbirciatina a ciò che si cela oltre la punta del mio naso. Ma c’è troppa nebbia, tanta che mi offusca i pensieri e non mi permette di avere una rapporto nitido e trasparente neanche con me stessa.

Vorrei che questa nebbia si diradasse, vorrei riuscire a piangere i miei sogni infranti senza farmi definitivamente abbattere dalle passate sconfitte. Vorrei acquisire la consapevolezza che un errore non è un fallimento ma soltanto un’esperienza da cui imparare e ripartire.

Ci sono dei desideri silenti e deboli da qualche parte nella mia testa a cui non so dare una voce.  Mi manca il coraggio, o meglio, mi manca la “cazzimma”, come dicono a Napoli. E’ necessario che io trovi prima di tutto la consapevolezza di meritare la felicità che sto inseguendo, altrimenti continuerà a scapparmi come il coniglio di Alice nel Paese delle Meraviglie, e come la protagonista della fiaba continuerò a sentirmi grande, poi minuscola ed insignificante, e continuerò a provare pozioni magiche che poi magiche non sono, nella speranza che mi cambino la vita in un lampo. Eppure so bene che non c’è trucco che tenga:  l’unica via è la lotta, per se stessi e per la propria libertà di scelta; non esistono scorciatoie.

Sono attanagliata dalla fottuta paura che la vita possa passarmi davanti talmente in fretta da sembrarmi solo un sogno.

Un sogno a cui, se non mi decido a partire adesso, non avrò mai dato la possibilità di avverarsi.

Ho paura del vuoto.

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Ma chi voglio prendere in giro? A chi voglio darla a bere?

Io non sono io, e a questo punto non so neanche se lo diventerò mai.

Mi sento a disagio in questa testa, in questa foresta nera che cerca in ogni modo di sabotare la me che ogni tanto sento bisbigliare da dentro, quando i pensieri si fanno più radi; la intravedo laggiù, oltre lo stomaco, dentro alle scarpe.

A volte faccio e dico cose talmente assurde da non credere di essere stata davvero io a dirle o pensarle; certe volte semplicemente guardo il mio corpo muoversi e ascolto la mia lingua emettere suoni inutili, privi di calore.

Però (parolaccia impronunciabile), da qualche parte, non so dove, io sento di essere qualcosa di più di questo frastuono che mi occupa la testa ogni istante. E solo quando canto, quando scrivo, quando sono persa in un abbraccio o quando ascolto attentamente una canzone, quel frastuono perenne riesco a zittirlo per un po’, e solo allora mi sento più leggera. Non so se quel “qualcosa in più” che credo di essere, sia una bella cosa o meno; però (altra imprecazione dettata dall’impotenza del momento) vorrei davvero poterlo toccare con mano. Solo a quel punto potrei dire “no, in effetti non valeva la pena darsi tanto da fare per scoprirlo”, oppure (magari): “caxxo, ma è una figata, perché non me ne sono accorta prima!”.

Il problema è che ci vuole coraggio per farlo, e io quel coraggio non riesco ancora a trovarlo; la paura di deludere me stessa e gli altri mi attanaglia e mi riduce ad un essere spaventato ed ansioso che cerca di guardarsi dentro e di guarire quanto meno le ferite ancora aperte di quando ero bambina.

E poi, se anche quel coraggio io lo trovassi davvero, so che non sarebbe sufficiente. Purtroppo la mia autostima è pressoché inesistente, se pure io continui a ripetermi che alla fin fine quella che ho mi basta e mi avanza, tanto che me ne frega, io campo lo stesso. E più questa fottutissima autostima si fa minuscola e fragile, più il mostro che abita il mio cervello diventa gigante, ingombrante, rabbioso; basta vedere il disastro che combina quando ogni tanto perdo le staffe e ne perdo il controllo. E’ capace di divorare me e chi mi circonda in una frazione di secondo.

E pensare che molto spesso, quando il mostro sta per sabotarmi ancora, io me ne accorgo pure. Però lo lascio fare: resto impietrita ed inerme ad osservarlo, desiderando nel contempo di diventare invisibile, come a dire: “quel mostro non è mio, io non c’entro niente, io sono un ‘altra cosa. Mettetelo in catene e fatene ciò che volete”.

Quando ho a che fare con persone che non conosco e che non mi conoscono, mi capita spesso di tenere lo sguardo basso come facevo a scuola, quando il prof scrutava i banchi col naso per aria, nell’interminabile trepidazione di chi proprio non sa decidere chi chiamare alla lavagna. Non so a voi, ma a me ogni volta qualcosa cascava inavvertitamente nello zaino e per delle mezz’ore proprio non riuscivo più a trovarlo.

Gli sguardi altrui mi mettono molta ansia, perché do per scontato che siano uguali al mio: arroganti, saputelli, critici e cattivi. Il mio, di sguardo, mi rimprovera continuamnte, ricordandomi quanto sono inadeguata, imperfetta, antisociale, cicciottella, sbagliata e tutto il resto.

Riflettendo a lungo su questa difficoltà nell’accettare me stessa (soprattutto al cospetto degli “altri”), mi sono resa conto di quanto spesso io risulti davvero insulsa e senza grinta. Se qualcuno mi parla, in automatico il mio cervello elabora la frase più breve e priva di personalità possibile per far morire sul nascere qualsiasi tipo di contatto o dialogo. Per dare una spiegazione razionale a questo meccanismo infame, sulle prime ho dato la colpa alla timidezza, dando per scontato che il tempo lo avrebbe aggiustato. In seguito ho pensato che forse di contenuti di spessore, dentro a questo corpo ingombrante, ce ne sono davvero pochi. Poi ho capito che è un semplice e stupido meccanismo di difesa che il mio cervello attua contro la paura: la paura di scoprire che dietro a questo computer, dietro a questi occhiali e dietro a queste parole vane, non ci sia davvero niente di più. Ho paura che se dessi agli altri la possibilità di conoscermi più a fondo, ci troverebbero davvero il vuoto cosmico: a quel punto non avrei più scuse, niente altro con cui giustificare i miei reiterati sbagli, la mia costante imperfezione. Il vuoto mi spaventa più del mostro famelico che mi abita la testa da sempre.

Probabilmente, il fatto di restare sul vago con frasi del tipo “oggi fa freddo”, “a lavoro come va?”, da al mio cervello l’illusione di prendere tempo; in questo modo può aggrapparsi sempre alla speranza di poter dimostrare più avanti il proprio spessore, alla faccia di chi mi credeva insulsa.

Che idiota.

Lo so, tutti i manuali di autostima sono contrari alle frasi dolci e amorevoli che mi rivolgo quotidianamente come fossero un mantra: che cretina; avresti potuto pensarci; non sei buona a niente; se continui così non andrai da nessuna parte.

Ma non riesco a farne a meno. E’ così che sono stata cresciuta dalle persone che avrebbero dovuto amarmi e farmi sentire importante, e ripetermi che sono sbagliata mi da la speranza di potermi riscattare con più facilità: partendo dal fondo, la spinta per risalire dovrebbe essere maggiore.

Devo essere sincera: vorrei davvero mettere fine a questo patetico teatrino messo su dal mio cervello infame. Anche perché sono convinta che qualcosa, oltre questa coltre di nebbia, ci sia davvero. E so che c’è perché è lei che a volte prende il mio stomaco e lo stringe forte fino a farmi male, lei che spinge queste lacrime su fino agli occhi passando per la gola, lei che riesce a farsi amare dalla persona speciale che ho accanto, e che probabilmente ogni tanto riesce a vederla e a parlarci.

Prima o poi anche io la scoverò. Troverò il coraggio di farlo. Spero solo di riuscire ad affrontare con serenità quello che troverò, anche se potrebbe non essere speciale come vorrei.

Non sarai punito per la tua rabbia, sarai punito dalla tua rabbia.

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La rabbia. La mia rabbia.

Che ci faccio con questa rabbia?

Al momento ci faccio solo stare male me stessa e le persone che ho intorno. Direi che non è un gran che.

Non riesco a governarla.

Si impadronisce della mia lingua in meno di un secondo, lega ed imbavaglia i miei pensieri ad una sedia immaginaria e non sono più quella che ero fino a pochi istanti prima.

Non so se capita anche a voi o se questa fortuna sia toccata soltanto a me.

Qualsiasi tipo di sopruso, fatto a me o alle persone che amo, mi fa salire una specie di istinto omicida che si limita ad abbaiare forte senza il minimo controllo. Credo che sia la me bambina che prova a fare la voce grossa da dentro, nel tantivo di far capire agli altri che non devono avvicinarsi, che devono lasciarla in pace. Le spiego continuamente che così facendo passa dalla parte del torto; sento che lo capisce, ma quando arriviamo al dunque, ecco che ci ricasca. E non vorrei che lo facesse, anche perchè sono responsabile per lei; odio dovermi scusare a causa sua.

Non so davvero come gestirla.

Eppure con i bambini sono sempre stata brava. Quando i miei fratellini si innervosivano e iniziavano a pestare i piedi per terra urlando in preda all’ira, riuscivo sempre a distrarli e poi a tranquillizzarli. Perchè con me non ci riesco?

Ho fatto qualche ricerca su google e letto alcuni libri, ma tutti riportano soltanto consigli su come bloccare sul nascere la reazione innescata dalla rabbia.

A me non serve questo. A me serve capire le ragioni della mia rabbia.

Quando esplode, è già troppo tardi per rendersene conto. La miccia dell’ira viene accesa in un lampo e subito va in orbita senza lasciarmi il tempo di decidere, senza lasciarmi scampo.

Questo non vuol dire che io mi stia arrendendo a lei. Ho solo bisogno di sfogare la mia frustrazione e ripartire da un’altra parte, da un’altra prospettiva che mi permetta di capire come vincerla. Non voglio più permetterle di sabotare la mia serenità.

 

 

 

Bella Livorno

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Anna è nel suo lettino già da qualche ora. Rannicchiata sotto le lenzuola, sogna di rincorrere suo fratello Filippo sulla spiaggia. Il mare le piace un sacco, e la mamma le ha promesso che a ottobre la iscriverà in piscina per imparare a nuotare, così la prossima estate potrà tuffarsi tra le onde senza braccioli.

Filippo invece fatica un po’ ad addormentarsi. Il babbo lo ha sgridato perché voleva alzarsi da tavola prima che tutti gli altri avessero finito di cenare. “Quando sono a casa dai nonni, mi posso alzare da tavola quando voglio”, ha risposto Filippo tutto imbronciato, dall’alto dei suoi 4 anni appena compiuti. Mentre cerca di trattenere le lacrime come ha visto fare ai suoi amichetti dell’asilo, si ritrova a pensare che la mamma e il babbo siano cattivi; e mentre immagina di traslocare su una casetta tutta sua in cima all’albero del giardino, lentamente si addormenta.

Sara e Simone si concedono finalmente una mezz’ora di meritato riposo sul divano. “I bimbi dormono” sussurra Simone col terrore di poterli svegliare col solo suono dei passi lenti sul parquet di legno. “Che ne dici se ci mettessimo nel lettone solo tu ed io, prima che quei due mostriciattoli arrivino nel bel mezzo della notte e ci spingano sul ciglio del letto?” propone sorridendo. Anna lo guarda con l’aria stanca di chi, dopo 9 ore di lavoro, ha dovuto correre dietro a due piccole pesti, cucinare, lavare i piatti, passare l’aspirapolvere e trovare anche il tempo di chiamare la madre che le ha invaso il cellulare di telefonate. “Mi sembra un’ottima idea. Con questa pioggia forte mi va proprio di starmene accoccolata sotto alle coperte”, ammette. “Ma non farti strane idee”, continua accennando ad un sorriso civettuolo.

E intanto fuori piove da un po’. È una pioggia più violenta del solito, una pioggia che fa quasi paura, ma è sciocco avere paura di un temporale quando si è grandi.

Insieme ai suoi abitanti, anche la casa si addormenta; le luci sono spente, la lavatrice ha appena finito la centrifuga, e non resta che il rumore sordo della pioggia sul tetto a coprire qualsiasi altro suono, tanto che è impossibile distinguere il fruscio dell’acqua che dal giardino filtra sotto la porta, prima come un rivolo di saliva, poi con sempre più violenza, come se il fiume sotto casa stesse vomitando tutta l’acqua che non riesce più a contenere. E lentamente quell’acqua invade la cucina, e poi raggiunge il pavimento delle camere e poi i letti.

Anna sta sognando di nuotare in mare senza braccioli, come le aveva promesso la mamma, e quasi le sembra reale la sensazione di bagnato, dell’acqua che le accarezza il corpo e la avvolge come se ci fosse immersa dentro. Poi comincia a mancarle in respiro, e allora annaspa per tornare in superficie, ma lì sotto è tutto buio e non sa dove andare. Se solo avesse avuto i braccioli! Prova a gridare ma non le esce niente dalla gola. Improvvisamente uno strattone forte la tira via dal suo letto e può nuovamente respirare. Non riesce a capire cosa stia succedendo. Papà la sta portando fuori sotto la pioggia, la mette in braccio al nonno e poi torna dentro. “Dov’è la mamma?” frigna Anna. Ma il nonno non risponde; ha un viso strano, bianco e spaventato. La porta al piano di sopra e la mette tra le braccia di nonna, poi torna fuori al buio sotto la pioggia.

Filippo è terrorizzato. È salito in cima al comò di camera sua e piange senza interruzione. La mamma stava andando a prenderlo, tenendosi forte alle pareti del corridoio, alla cornice della porta e a quella del letto. Ma poi, all’improvviso. l’acqua se l’è portata via; l’ha sentita gridare qualche secondo e poi più niente. Il silenzio è stato interrotto soltanto dalla voce del suo papà che lo chiamava: “Filippo!! Papà sta arrivando!! Fermo dove sei!!” – Gli è sembrato di sentire anche la voce del nonno, e finalmente eccoli entrambi sulla soglia della sua camera. Ma perché camminavano così lentamente? Non era certo il momento di giocare alle belle statuine!

L’acqua continua a correre impetuosa ed inarrestabile. Il fango imprigiona le gambe, il busto, le braccia. Simone cerca di tenere Filippo più in alto possibile, come se stesse sperando nell’arrivo di un angelo che prenda al volo il suo bambino e lo porti in salvo, all’asciutto. Nel frattempo vede gli occhi di suo padre pieni di lacrime, con l’espressione di chi ha deciso di arrendersi alla furia di una natura che si ribella, che senza permesso tenta di riprendersi il posto che l’uomo le ha tolto, ma che in realtà le è sempre appartenuto.

Il temporale ha spazzato via ogni ostacolo, i fiumi hanno rotto gli argini, e l’acqua si è impadronita di gran parte della città. E insieme alle macchine, ai lampioni e ai cassonetti dell’immondizia, si è portata via pure Filippo, Sara, Simone e nonno Franco. Il fango li ha trattenuti in un abbraccio viscido e paludoso che gli ha riempito i polmoni, togliendogli l’aria e la vita.

Nel frattempo Anna, che è ancora rannicchiata nell’abbraccio accogliente e sicuro della nonna, non riesce a smettere di piangere, e pensa che di imparare a nuotare non le importa più niente; non appena la pioggia forte sarà finita, correrà a saltare nelle pozze d’acqua con Filippo e dirà alla mamma che, tutto sommato, al mare può continuare a nuotare pure con i braccioli.

La (mia) anima vola

​È piena estate e fa caldo. Accendo il condizionatore e il brusìo sordo dell’aria fresca che riempie la stanza mi fa compagnia. Nella casetta che ho preso in affitto quattro giorni dopo aver abbandonato la mia vecchia vita, non c’è molto da fare. C’è una TV che non accendo praticamente mai, e sotto la finestra ho la mia pianola con gli spartiti. E così, quando sono sola e la mia testa ha già costruito castelli in aria, sognato futuri improbabili e fatto a botte coi ricordi, per darle un po’ di pace mi metto a suonare. E a cantare. E mi sento perfettamente a posto; per un’ora smetto di sentirmi sbagliata, confusa, cicciottella, stanca. Sono nella stanza ma non sono lì, tolgo il guinzaglio alla mia anima e lascio che voli tra le note e le pause, che cerchi il sollievo che la mia mente testarda non puó a darle. 

C’è qualcuno in particolare che devo ringraziare per avermi dato la possibilità di dar sollievo alla mia anima inquieta, ma credo che lo farò stasera, quando rientrerà dal lavoro.

Il posto più freddo

Cold

Scusa ma non riesco proprio ad uscire stasera
troppi muscoli da usare
ho esagerato un po’
Avrei bisogno di parlare con qualcuno di gentile
perché non passi qui.

E’ già finita tra noi lo so
ma non pensare male
non chiedo niente di più lo sai
di un respiro da ascoltare.

Perché adesso la notte è finita e la luce è accesa
e mi sveglio in un posto qualunque alle sette di sera
le gengive, la serotonina, tornare a casa
nel crepuscolo nero di tram e anziani in chiesa
perché adesso la notte è finita e la droga è scesa
ecco a voi la creatura più sola su questo pianeta
e i brividi vengono su dalle gambe al petto
il posto più freddo è qui, proprio dentro al mio letto
ti prego rimani con me ancora un momento
ti prego rimani con me fino a che mi addormento.

Scusami per ieri sera
come ti abbracciavo
si lo so non è più il caso
ho esagerato un po’
sorridevo ma pensavo che
se il mondo fosse esploso
non ti avrei visto più.

E’ già finita tra noi lo so
ma non pensare male
non chiedo niente di più lo sai
di un respiro da ascoltare.

Perché adesso la notte è finita e la luce è accesa
e mi sveglio in un posto qualunque alle sette di sera
le gengive, la serotonina, tornare a casa
nel silenzio del bagno la luce traballa impietosa
perché adesso la notte è finita e la droga è scesa
ecco a voi la creatura più sola su questo pianeta
e i brividi vengono su dalle gambe al petto
il posto più freddo è qui proprio dentro al mio letto
ti prego rimani con me ancora un momento
ti prego rimani con me fino a che mi addormento
ti prego
rimani con me
ti prego
rimani con me
ti prego
ti prego
ti prego
ti prego
ti prego
ti prego
ti prego
ti prego.

E’ già finita tra noi lo so
me lo ricordo bene.

Il Posto Più Freddo – I Cani  (https://www.youtube.com/watch?v=_KSF7lvAjj8)

Ci sono momenti, nella mia quotidianità, in cui devo fare molta attenzione agli input che mi arrivano dall’esterno; ci sono giorni in cui devo sapermi difendere da un ricordo troppo triste che riaffiora improvviso, o dalle stilettate dritte e precise di una canzone che lo shuffle di Spotify mi propone casualmente (oppure no?).

E giusto qualche mattina fa, viaggiando in macchina con la mente sgombra verso l’ufficio, sono stata sopraffatta dalla canzone de I Cani – “Il posto più freddo”– tanto da non riuscire a trattenere le lacrime.

Ho pensato che mi piacerebbe saper scrivere così: nessuna metafora, nessun giro di parole; con una frase riesce a catapultarti nell’indifferenza di un tram cittadino, nel buio freddo di una chiesa quasi deserta. Nessun colore, nessun calore.

Mi lasciano indifferente parole come “sole”, “cuore”, “amore”; ma “ecco a voi la creatura più sola su questo pianeta” riesce a toccare quelle note gravi e profonde che normalmente evito di suonare: posso ascoltarla a ripetizione e non cambierà mai niente; perché ogni volta mi riporta in quel bagno di casa mia, davanti al riflesso sfuocato di una ragazzina con gli occhi gonfi di lacrime. Ricordo di aver desiderato di morire; ricordo di aver pensato: “se muoio, soffriranno tutti così tanto da pentirsi di tutto quello che mi stanno facendo”.

Probabilmente sono ancora troppo vulnerabile, ancora troppo debole per guardare dentro l’abisso di qualcun altro; avverto forte il rischio di lasciarmi trasportare dalla depressione e dalla tristezza che sgretolano le pareti di quegli abissi, come venti impetuosi ed inarrestabili.

E invece mi verrebbe istintivo sdraiarmi a pancia in giù lungo il bordo dell’abisso e allungare un braccio, porgere la mano.

Sicuramente vorrei che qualcuno lo avesse fatto con me.

L’ultima poesia

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Ci sono momenti in cui mi sento infinitamente sola, in cui mi sento un’aliena di un mondo lontano caduta per sbaglio sulla terra; so di avere una famiglia, di essere stata bambina ed esser pian piano diventata grande, ma purtroppo non ho molti ricordi legati alla mia infanzia; ho una sorta di vuoto cosmico che mina fortemente il mio senso di appartenenza a questo mondo. Mi torna alla mente un solo episodio dell’ultimo anno di asilo (quando cascando all’indietro da una panca mi trovai con le labbra sulle labbra di un bambino col caschetto biondo), e poi soltanto l’incubo sfuocato delle scuole elementari. Però una cosa che ricordo bene c’è: quando tornavo a casa e i cartoni animati finivano, amavo chiudermi al sicuro dentro di me, tra le mura della mia anima, con davanti il quadernino delle mie poesie. Non c’era niente che mi emozionasse di più di una matita con una punta ben fatta e un foglio di carta bianco tutto da riempire. In quei momenti mi sentivo felice, potente, emozionata. Purtroppo, però, quelle poesie riesco a ricordarle solo vagamente: parlavano di luci, di ombre, di sfumature e silenzi. Non ne ho conservata nessuna, perché quando si è piccoli non si ha molta cura delle cose; si ha solo bisogno di prendere il momento, impiastricciarlo e giocarci fino a quando non lo si è stropicciato per bene. Poi tutto ricomincia daccapo.

Un’altra cosa rimasta vivida nella mia memoria, è il momento in cui ho scritto l’ultima poesia.

Era l’estate della prima media. Tra meno di una settimana sarebbe ricominciata la scuola, e avrei dato qualsiasi cosa per spezzare l’ansia del rientro; tutto tranne la sua vita: “Valentina è morta. Era al mare coi genitori, ha avuto un attacco d’asma fortissimo, non aveva con sé le sue medicine e l’ambulanza non ha fatto in tempo a rianimarla”. Sul subito pensai soltanto “che stupido scherzo”, come se il mio cervello di ragazzina non potesse neanche concepire la morte di una persona. Che concetto astratto che era allora per me la morte.

Quando mi resi conto che era tutto dannatamente reale, il massimo che la mia anima destabilizzata riuscì a partorire fu la consapevolezza che non avrei più visto quella splendida bambina bionda al banco in seconda fila ; non avrei più visto i suoi occhi azzurri e sereni che tanto invidiavo, o l’angioma a forma di cuore disegnato sulla sua guancia. La semplificazione estrema di un disagio che ancora non intuivo neanche lontanamente.

Rientrati in classe, i professori chiesero ad ognuno di noi compagni di scrivere una poesia per lei: la più bella sarebbe stata letta durante i suoi funerali.

Io, che ero stata sempre timida e riservata, non volevo che la mia poesia “vincesse”. Non c’era nessuna vittoria da portare a casa da una disgrazia simile. E allora scrissi solo per lei, come se lei fosse ancora seduta a quel banco in seconda fila. Quaranta minuti mi furono sufficienti a versare tutte le lacrime necessarie a sciogliere il groppo che avevo in gola. L’inchiostro blu di qualche parola si era trasformato in una macchia tonda dai bordi frastagliati, ma l’insegnante riuscì comunque a leggere la poesia fino alla fine.

“Bravissima. Una poesia bella ed emozionante che potrà dare voce alla nostra sofferenza, e che ci permetterà di raccontare quanto fosse speciale Valentina per tutti noi. Se te la senti, sarai tu a leggerla in chiesa”.

“Professoressa…preferirei di no.”

“Prof, se è d’accordo la leggo io. Valentina era la mia amica del cuore”

“D’accordo, allora la leggerai tu Daniele”.

Durante i funerali Daniele si incamminò verso l’altare con la testa bassa, il viso affranto ma allo stesso tempo fiero del momento di gloria che avrebbe vissuto di lì a poco. Tutti i partecipanti al funerale piansero senza sosta mentre le parole della mia poesia scorrevano semplici e strazianti come solo la morte di una bimba di 12 anni può essere. Io però, stranamente, non piansi mai. Restai impassibile, in silenzio, covando dentro la fottuta paura che potessero chiamarmi al leggio da un momento all’altro.

D’altronde io avevo già fatto tutto ciò che sentivo di fare: Valentina l’avevo già salutata dal banco in terza fila, lasciando che un pezzetto della mia anima volasse via con lei. Da allora non ho mai più scritto poesie.

 

Non accontentarti mai, non svenderti mai.

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Avrei tanto voluto che i miei genitori  mi insegnassero fin da piccola a non accontentarmi delle vie di mezzo, a non accontentarmi del “meno peggio”, a non svendere me stessa in cambio di un po’ di compagnia e un briciolo di comprensione.

Ma purtroppo non è andata così, e ho dovuto imparare a mie spese cosa sia il rispetto per se stessi, a discapito delle regole sociali e di tante morali del cazzo.

Alla veneranda età di 30 anni, mi sono improvvisamente resa conto che non avrò altre vite a disposizione per provare altre strade; e quindi, se voglio qualcosa per me, devo cercare di conquistarla adesso. E se alla gente intorno non sembra giusto….che si fotta. Tutta quanta.

Normalmente sono molto pacata e gentile col mondo intorno (anche se da qualche espressione colorita poco sopra si potrebbe evincere il contrario), e non vorrei dover essere costretta a cambiare questo mio aspetto “educato” che apprezzo molto quando lo trovo anche negli altri. Ma non esisterà più che, per essere educata, io vìoli me stessa e mi faccia pestare i piedi senza aprir bocca.

Tante, tante e tante volte ho abbassato la testa e ho lasciato che mi facessero del male pur di non scontentare gli altri. Questi “altri” che però non meritavano affatto tutto il mio dolore. “Altri” che neanche si rendevano conto di quel dolore. Altri che, pur vedendolo, non apprezzavano il mio sacrificio.

Forse, parlando così in termini generali, è un po’ complicato rendere il concetto, mentre vorrei che fosse ben chiaro. E non tanto perchè altri lo capiscano, ma perchè io stessa, rileggendo queste righe tra qualche tempo, possa ricordare vividamente cosa sto provando adesso: il coraggio di essere me stessa, la consapevolezza di ciò che voglio e di quello che non voglio, il rispetto per la me piena di difetti che deve pretendere questo stesso rispetto anche dagli altri.

Ho smesso di rincorrere, sperare e desiderare la presenza di persone che mi hanno ferita in passato e che non meritano il mio impegno. Non perchè io sia speciale, diversa o chissà cos’altro, ma semplicemente perché ho il dovere di proteggermi dalla gente intorno che non è sempre disposta a fare attenzione a non calpestare i sentimenti altrui. Ho smesso, lo confermo, ma resistere alla tentazione di cascarci di nuovo è difficile. E’ difficile per tutto il cuore che ci ho messo al tempo in cui certe relazioni sembravano poter funzionare davvero. E sono consapevole che i grandi e piccoli pezzetti di cuore che ho regalato, non mi saranno restituiti.

Spero che il cuore rimasto sia abbastanza per far felici le persone che verranno.

 

 

 

 

 

 

 

Sono guarita.

freedom

Dopo anni persi ad inseguire una felicità fatta di niente, oggi sento che sono finalmente guarita.

Mi sono svegliata da un lungo sogno frammentato da incubi, un sogno in cui ero la persona sbagliata per me stessa e per gli altri.

Ho provato per anni ad adattarmi, a diventare ciò che la società voleva che fossi.

Ho provato a fare la dieta; ho provato ad essere gentile con chiunque, anche con chi non se lo meritava; ho provato a dimenticare i torti subiti per non creare polemiche di sorta; ho provato a far finta che i pettegolezzi sulle vite altrui mi interessassero; ho provato ad adattarmi alle mode del momento; ho provato ad accontentarmi delle cose materiali; ho provato ad adattarmi ad ogni situazione, anche quella in cui davvero non sarei voluta stare; ho provato ad amare “nonostante tutto”, come raccomandano i vecchi di una volta che restano insieme per la vita pur odiandosi a vicenda.

Le ho provate davvero tutte per sembrare perfetta, intelligente, capace, vincente.

Il risultato però è stato disastroso.

Ho sopportato le peggiori torture, ho violentato me stessa, e tutto andava apparentemente bene fino a quando non sono inciampata in qualcosa che non avevo programmato. Sono caduta, e mentre cadevo ho pensato che da sola non potessi farcela, che dovevo aggrapparmi alla persona che avevo accanto; ma così facendo ho portato giù anche lei. Ci siamo fatti molto male, un male che non scorderò mai, e ho pianto fino a non avere più respiro. Ma alla fine di quel pianto ho trovato una consapevolezza nuova. Ho ritrovato me stessa; e pensare che lì per lì neanche mi sono riconosciuta.

Per quanto insistentemente il cuore mi dicesse “non riesci farlo”, e per quanto forte la gente intorno urlasse “non puoi farlo”, ho corso il rischio più grande possibile e ho deciso che avrei salvato me stessa da una vita infelice e senza sogni.

E nella nuova vita, quella di adesso, sento di essere diventata ciò che realmente sono. Ho riscoperto il rispetto per me stessa, l’accettazione dei miei difetti (be’, non proprio tutti a dire il vero, ma ci sto lavorando), la consapevolezza di dover fare ciò che mi fa stare bene, di dovermi circondare di persone che abbiano rispetto di me e che non pretendano di cambiarmi ad ogni costo. Ho capito che non devo cambiarmi per piacere agli altri e che l’impegno in qualsiasi tipo di relazione deve essere reciproco.

So che non sarà semplice evitare di cascare nella trappola dell’approvazione ancora una volta, ma il dolore appena vissuto servirà proprio nei momenti di debolezza, in cui cedere sembrerà più facile che continuare a combattere per me e per le persone che mi stanno accanto.